Nemesi è parola grossa. Ma almeno di ironia della storia si può parlare.
Perché toccherà all’uomo che più si è adoperato per smantellare l’obesa eredità dell’Iri e dello Stato Padrone, battezzare trent’anni dopo la rinascita dello Stato Imprenditore. Negli anni ’90, infatti, la grande stagione delle privatizzazioni avvenne sotto la spinta di Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi.
Ma il regista effettivo, lo snodo, il punto di riferimento, il terminale di accordi e contratti era, dietro la sua scrivania di direttore generale del Tesoro, Mario Draghi, nel primo incarico cruciale della sua lunga carriera.
Via, via, sono gli anni in cui lo Stato si libera – fra l’altro – dell’acciaio, delle autostrade, dei telefoni, delle banche. Servì ad abbattere il debito pubblico, in vista dell’ingresso nell’euro, anche se alcune di queste storie presentano luci ed ombre, come gli eventi successivi si sono incaricati di chiarire. La stagione, del resto, è poi proseguita, quando Draghi non c’era più, con i flop a catena di Alitalia e il pasticcio Montepaschi.
Ma ora, come un nastro che si riavvolge (per usare un paragone adatto agli anni ’90) o un gigantesco gioco dell’oca, si torna indietro, alla casella di partenza o quasi. Ed ecco acciaio, aerei, telefoni, autostrade, banche rifugiarsi nuovamente nelle braccia dello Stato. Tecnicamente, non si può parlare di nuova Iri. Se, nel caso Alitalia, il protagonista è direttamente il Tesoro ed è sempre il Tesoro a tentare di districarsi dalla palude Montepaschi, negli altri casi ad agire sono Invitalia e soprattutto Cassa Depositi e Prestiti, enti formalmente indipendenti dal bilancio dello Stato. Anche se solo per effetto di un artificio contabile, la cui solidità è data unicamente dal fatto che lo stesso sistema è applicato anche in Francia e in Germania.
Direttamente o indirettamente, comunque, Draghi sarà chiamato, nei prossimi mesi, a (ri)sistemare nella mano pubblica, oltre alla nuova Alitalia, l’acciaio dell’Ilva (ovvero il più grande impianto siderurgico di Europa), la più grande rete autostradale italiana, l’intera banda larga nazionale. Ma, probabilmente, anche molto di più.
Ognuno di questi megadossier – e crisi annesse – arriva, infatti, da lontano, come nel caso dell’Ilva, dell’Alitalia, di Montepaschi. Ma anche i più recenti, come telefoni e autostrade, sono comunque parte del mondo pre-Covid. La pandemia, tuttavia, ha stravolto il panorama dell’economia nazionale e lo Stato Imprenditore non è più solo la risposta-tampone a crisi sistemiche, come gli aerei e l’acciaio. E’ invece il coltellino milleusi di un intervento strisciante, molto meno vistoso perché sparpagliato, ma che si allarga a macchia d’olio su tutto l’arcipelago delle imprese. In nome del principio: se non le salviamo noi, affonda tutto il paese.
La pandemia, le quarantene, la chiusura delle aziende, l’asfissia dei consumi ha messo, infatti, in ginocchio centinaia e centinaia di imprese. Molte delle quali, con il ritorno della normalità, si dimostrerebbero, invece, vispe e vitali. Come impedire che affondino anch’esse, aprendo nel tessuto economico nazionale cicatrici che non sarebbe facile risanare?
La risposta, in Italia come nel resto d’Europa, è stata di inondare il mondo delle imprese con un torrente di prestiti e garanzie che le tenesse a galla. Sono tutti debiti, però, che appesantiranno quelle stesse imprese, forse in misura alla fine fatale, al momento in cui la ripresa le chiamerà al decollo. Per sventare questo pericolo, il governo spagnolo ha appena varato una legge che distribuisce alle imprese 7 miliardi di euro, non più come prestiti, ma direttamente come sovvenzioni a fondo perduto, oltre a stanziare 1 miliardo di euro per interventi diretti nel capitale.
Il rafforzamente del capitale, più che i prestiti, è la strada che indica anche Isabel Schnabel, la componente tedesca del board della Bce. La strada più efficace per salvare le aziende in crisi, ma sane, dice la Schnabel, è proprio intervenire sul capitale, sperando poi di uscirne al più presto possibile. In teoria, ad irrobustire i bilanci, senza appesantirli di debiti, dovrebbero provvedere le banche, che conoscono i loro clienti e possono più facilmente selezionare quelli che hanno prospettive di ripresa. Ma delle banche, osserva la Schnabel, è meglio non fidarsi: per evitare di mettere a bilancio delle perdite sui crediti potrebbero essere spinte ad intervenire con iniezioni di capitale, anche quando la situazione lo sconsiglia.
E allora a chi tocca farsi imprenditore per salvare gli imprenditori? Allo Stato. Nei prossimi mesi, dunque, Mario Draghi avrà il compito di pilotare questa discesa in massa del capitale pubblico nel sistema delle imprese. Più complesso e articolato in Italia, rispetto ad altri paesi, per la polverizzazione del sistema imprenditoriale, dominato da aziende piccole e piccolissime. Il punto, comunque, è che Draghi non deve inventare niente. Gli strumenti esistono già. Alcuni sono massicci, altri assai esili. Se si deve ridefinire il perimetro dello Stato Imprenditore, tuttavia, bisogna decidere quanto devono essere effettivamente grandi e pervasivi e, soprattutto, coordinarli, per evitare che si pestino i piedi.
Lo strumento più grosso fa capo a Cassa Depositi e Prestiti. E’ il cosiddetto Patrimonio Rilancio, ovvero un Fondo con le tasche profonde, 40 miliardi da destinare al supporto di aziende con almeno 50 milioni di euro di fatturato, con la condizione vincolante che l’intervento pubblico sia pareggiato da un intervento di privati nel capitale di pari entità.
Ancora Cassa Depositi e Prestiti gestisce un Fondo nazionale Innovazione, che ha l’ambizione di rappresentare una forma statale di venture capital per far nascere e crescere start-up nei settori di punta della tecnologia. La dotazione è limitata, 200 milioni di euro, ma la sua azione si accavalla con un altro Fondo, gestito questa volta dall’Enea, Enea Tech, che dispone di 500 milioni di euro per rimpolpare il capitale di aziende che vogliano trasformare in business i risultati delle loro ricerche. Per altro, non finisce qui, perché un altro Fondo d’investimento per lo sviluppo delle piccole e medie imprese dispone di altri 280 milioni di euro per aiutare aziende della green technology e del settore aeronautico.
Esplicitamente legato all’emergenza è, invece, un ulteriore “Fondo per la salvaguardia dei livelli occupazionali e la prosecuzione dell’attività d’impresa” che può mettere 650 milioni a disposizione di salvataggi. Non più di 10 milioni per uno, però, e con l’obiettivo di rientrare entro 5 anni.








