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Impatto delle infezioni nella sanità moderna: la lezione del Covid-19

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Il 20 febbraio 2020, mentre la sanità pubblica italiana era occupata a sorvegliare le frontiere per gestire al meglio l’ingresso sul territorio nazionale di casi sospetti provenienti dalla Cina, veniva posta diagnosi di polmonite da SARS-CoV-2 in un paziente ricoverato presso la terapia intensiva dell’ospedale di Codogno, in assenza di anamnesi di contatti con tale paese. I 36 ulteriori casi diagnosticati il giorno seguente, dimostravano che il virus era già presente, verosimilmente da tempo,  nella nostra realtà ed annunciavano il dramma che l’Italia prima, l’Europa dopo e via via tutti i paesi d’oltre oceano hanno vissuto o stanno tuttora vivendo. Ed oggi, poco più di 100 giorni dopo, 233.500 casi e 33.500 decessi sul territorio nazionale impongono a tutti, in particolare al mondo medico, politico, industriale e sociale una profonda ed onesta riflessione sulle tante lezioni che questo evento tragico ci ha impartito.

Lezioni certo ma anche opportunità di crescita e miglioramento dell’intero sistema Italia.

La prima lezione ha riguardato senza dubbio l’organizzazione sanitaria che inizialmente si è posta di fronte all’incipiente pandemia con protervia eccessiva rispetto al livello di conoscenze presenti. Troppi sedicenti esperti di una malattia in realtà sconosciuta nel mondo occidentale fino a pochi giorni prima, si sono affannati ad affermare dapprima la inesistente pericolosità del virus salvo poi farne una sorta di castigo divino in grado di generare stragi bibliche e decimare l’intera umanità.  In realtà tutti siamo stati sorpresi dall’ondata della pandemia, a così la sanità e la politica, che si sono trovate impreparate a fronteggiare l’evoluzione turbinosa dell’epidemia. Questo ha scatenato un acceso e talvolta eccessivo dibattito politico, più finalizzato a trovare colpevoli che soluzioni, che complessivamente ha reso più difficile il lavoro di chi è stato chiamato a prendere decisioni rilevanti di sanità pubblica.

Quanto accaduto non è certo una novità, bensì la reiterazione di uno schema comportamentale tipico di ogni popolazione di fronte all’insorgere di una epidemia, come è stato mirabilmente descritto da Albert Camus nel romanzo “la peste”.  Le epidemie dispiegano il dramma sociale ad esse correlato attraverso tre fasi: la prima è quella della negazione della sua esistenza, stimolata dalla necessità di autoassicurazione rispetto ai potenziali impatti negativi sulla vita sociale ed economica, la seconda è quella della ricerca di spiegazioni e possibilmente di colpevoli, la terza quella della reazione istituzionale, sanitaria e politica, spesso onerosa e drammatica quanto l’epidemia stessa. 3

Lo stesso è avvenuto con COVID-19: ad un’iniziale sottovalutazione, che ha contribuito a far divampare i primi incendi, è seguita la inevitabile colpevolizzazione della Cina, accusata sia di avere nascosto l’epidemia, sia di averla generata nel contesto di fantascientifici esperimenti biologici, colpevolizzazione che ha addirittura portato ad incrinare rapporti diplomatici e generato richieste di danni. A seguire la diatriba tra la presidenza degli Stati Uniti e l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha travalicato i confini del dibattito politico, generando anche una pericolosa querelle in ambito scientifico.4

Ed infine sono arrivate le misure restrittive di contenimento, dalle prime zone rosse agli inizi di marzo, alla chiusura delle scuole ed al decreto il decreto “resto a casa” del 9 marzo, alla chiusura di bar e ristoranti il 12 marzo, fino al lock down totale dal 22 marzo al 4 maggio. Queste misure, emanate, ed accettate, con una decisione ed un rigore che hanno fatto dell’Italia un esempio di organizzazione e di dignità, hanno però colpito al cuore il nostro sistema produttivo e sociale. Infatti è verosimile che le perdite economiche ed il profondo impatto sulla condizione psicologica e sulla salute complessiva di un intero popolo, perdureranno per un tempo che verosimilmente supererà quello dell’epidemia.  

Però, come detto in precedenza, ogni lezione ha una propria valenza positiva: la storia insegna che le grandi epidemie hanno sempre slatentizzato strutture comportamentali di singoli e di nuclei societari normalmente non evidenti o sottovalutate, in senso negativo ma altresì positivo. Le grandi epidemie di peste nell’Europa medievale del XIV secolo hanno indotto le prime persecuzioni degli ebrei, la storia della colonna infame, la leggenda dell’untore, una significativa destabilizzazione del contesto sociale, economico e morale, ma hanno cambiato profondamente, ed in meglio i concetti architettonici delle grandi città, hanno stimolato le prime riflessioni sul valore dell’igiene personale e pubblica, hanno riportato nel giusto solco la tradizione religiosa grazie alla riscoperta del concetto di carità, hanno cambiato la struttura economica e produttiva  dell’Europa e sostanzialmente hanno avviato un intero continente verso la meravigliosa epopea del Rinascimento.

Secoli dopo, l’infezione da HIV ha spiazzato completamente molti concetti della medicina moderna per almeno 10 anni, ha falcidiato tra il 1980 ed il 1995  generazioni di giovani,  ma nelle stesse  ha indotto una profonda riflessione sui comportamenti sessuali,  si è associata ad un miglioramento sostanziale nei comportamenti del personale sanitario ed ha stimolato uno sviluppo straordinario delle conoscenze in ambito virologico ed immunologico, portando al miracolo della scoperta di risorse terapeutiche efficaci in meno di vent’anni e contribuendo a sviluppare  conoscenze applicate con successo a numerosi altri ambiti patologici.

Ed anche l’epidemia da SARS-CoV-2 ha seguito e seguirà traiettorie simili: al dramma delle bare ammassate ovunque, all’oggettiva difficoltà della scienza nel trovare risposte e spiegazioni ad una malattia dai comportamenti spesso inspiegabili, alla disperata stanchezza di medici ed infermieri impegnati senza tregua per settimane in una battaglia apparentemente senza speranza, alla durissima prova del lockdown per tante famiglie, dai bambini ai nonni, alle catastrofiche dimensioni dell’epidemia nelle case di riposo,  fanno da contraltare tante bellissime storie di silenziosa solidarietà, la riscoperta del valore del lavoro in équipe in ambito sanitario, la incredibile capacità del sistema sanitario di reggere un’onda di dimensioni immani senza compromettere i livelli essenziali di assistenza, la fantasia che spesso ha supportato le carenze di risorse tecnologiche, l’indiscussa prova di coraggio e abnegazione fornita dagli operatori sanitari a tutti i livelli, le intuizioni terapeutiche ed il fervore scientifico che hanno accompagnato i cento giorni che non dimenticheremo.

Ed ora che l’onda più alta è passata queste lezioni ed esperienze saranno basilari per costruire ospedali migliori, per ridisegnare la struttura operativa della sanità pubblica e privata, per cambiare in meglio le regole comportamentali nelle strutture sanitarie, ma altresì in molti contesti di aggregazione sociale, lavorativa e ricreativa, per generare una ricerca scientifica condotta con migliore rigore ed onestà intellettuale.

L’esperienza personale vissuta nella città di Bologna ha insegnato molto: ha dimostrato che un’unica direzione ed un unico coordinamento, condiviso tra azienda territoriale e direzioni ospedaliere hanno evitato percorsi paralleli ed hanno portato ad una sincronizzazione costante tra medicina ospedaliera, medicina di comunità, igiene pubblica e medici di medicina generale, la quale a sua volta ha sostenuto il lavoro di squadra necessario, riportando ogni idea, ogni intuizione ed ogni  individualismo in un ambito di condivisione comune.

In particolare la presenza di una medicina territoriale storicamente organizzata ha permesso nell’ultima settimana di marzo di cambiare il paradigma gestionale dell’epidemia, virando da una medicina di attesa dei casi gravi all’interno delle strutture ospedaliere ad una ricerca proattiva dei pazienti a domicilio, annullando il gap temporale tra insorgenza dei sintomi ed arrivo in ospedale, che nelle prime settimane aveva generato una elevatissima afferenza di casi gravi. Questo ha permesso di detendere le unità di terapia intensiva, consentendo un più agevole mantenimento di livelli ottimali di gestione delle patologie gravi non COVID-19 correlate (chemioterapie, chirurgia dei tumori, trapianti d’organo, ecc.) ed analogamente ha consentito una più qualificata gestione di molti pazienti, in cui le scelte terapeutiche non erano più condotte in condizioni di drammatica emergenza.

In più, l’esperienza di un sistema sanitario al servizio di una popolazione di un milione di abitanti, che, partito ai primi di marzo con 30 letti di Malattie infettive e 10 di terapia intensiva dedicati, ha saputo arrivare in due settimane a 400 letti di degenza ordinaria e 180 letti di Terapia Intensiva per COVID-19, ha indotto molte riflessioni utili a strutturare le organizzazioni sanitarie in modo più idoneo a minimizzare il rischio di cluster intraospedalieri ed a prepararsi a risposte più rapide ed efficaci di fronte alle emergenze epidemiologici.

Quindi gli ospedali dovranno avere nel prossimo futuro spazi più ampi e minori livelli di promiscuità tra pazienti; questo significa ristrutturazioni che porteranno inevitabilmente ad una riduzione dei posti letto. Tutto ciò risulterà sostenibile nella misura in cui l’organizzazione sanitaria sarà capace di cambiare radicalmente i principi gestionali di molte patologie, in primis il chronic care, che dovrà vedere un crescente coinvolgimento della medicina di comunità, adeguatamente incentivata e dotate di risorse e vocazioni. Anche la scuole di medicina dovranno adattarsi a questi cambiamenti, preparando le nuove generazioni di infermieri e medici ad ambiti di attività diversi dal recente passato, passando dai grandi templi della medicina ad un concetto di sanità più vicina alla popolazione, sempre più commisurata alle esigenze di un case mix che cambia, invecchia e si arricchisce di malati fragili, con multiple co-morbosità, bisognosi di un’assistenza forse meno ospedale-centrica e sempre più efficacemente “spalmata” sul territorio.

Ed anche i comportamenti degli operatori vivranno una fase di ulteriore adeguamento ed è auspicabile che la grande paura porti finalmente i livelli di igiene delle mani e di compliance con i presidi di protezione individuale e dei pazienti su valori adeguati. Questo è un aspetto di particolare rilievo, perché ora che l’epidemia sta virando verso una condizione di endemia il concetto di ospedale sicuro, così come quello di casa di riposto sicura, passeranno prima di tutto dalla nostra attenzione comportamentale.

Ma forse la lezione più importante l’abbiamo imparata tutti quando, chi chiuso in casa, chi lavorando senza sosta, rinvangavamo i bei tempi in cui si poteva abbracciare un amico, stringere una mano, andare al cinema, andare allo stadio, lavorare a stretto contatto e così via. Quello che facevamo ogni giorno in modo più o meno automatico, magari anche un po’ annoiati, credendo fosse un diritto acquisito è diventato un miraggio quando un virus ce lo ha brutalmente ed acutamente negato. Se sapremo riscoprire il piacere della normalità, consci che questo è un privilegio e non un diritto, se sapremo meglio rispettare i fondamenti della nostra vita di relazione, forse avremo gettato le basi per costruire un mondo migliore.  

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

1. Farrar JJ, Peter Piot P The Ebola Emergency–Immediate Action, Ongoing Strategy N Engl J Med 2014;371(16):1545-6.

2. WHO 2020, https://www.who.int/emergencies/diseases/novel-coronavirus-2019/events-as-they-happen

3. Jones DS.History in a Crisis – Lessons for Covid-19. N Engl J Med. 2020;382:1681-1683. 

4. Mehra MR, Desai SS, Ruschitzka F, Patel AN.  Hydroxychloroquine or chloroquine with or without a macrolide for treatment of COVID-19: a multinational registry analysis.  Lancet. 2020:S0140-6736(20)31180-6.

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