Dal punto di vista economico le forze messe in moto con la Quarta Globalizzazione sono di una potenza incomparabile al passato.
Contrariamente alla retorica corrente, i decenni dal 1990 sono stati caratterizzati a livello globale da tassi di crescita notevoli per l’economia mondiale, per l’emergere di potenze di dimensione enorme con tassi di crescita spettacolari (prima le tigri asiatiche, la Cina e tutto il sud-est asiatico).
In questi decenni sono usciti dalla povertà interi continenti.
Francamente, parlare di insuccesso economico della globalizzazione è come minimo adottare una visione del mondo biecamente euro-centrica.
Anche l’idea che la diseguaglianza in questi decenni sia aumentata, un mantra costantemente ripetuto, è di fatto un falso.
È aumentata all’interno dei paesi occidentali, provocando malcontento nelle nazioni più avanzate, ma su scala globale è diminuita in maniera importante, come è diminuita la povertà assoluta.
E va anche detto che, anche a parità di reddito, la globalizzazione ha reso più economici beni di consumo di largo uso e di alta qualità che anche gli strati meno abbienti in occidente si possono permettere.
Di fatto, l’epoca del liberismo selvaggio, come qualcuno ha battezzato questa globalizzazione, ha coinciso con la più grande emersione di popolazione mondiale dalla povertà assoluta della storia.
La povertà assoluta è crollata dal 41% della popolazione mondiale nel 1981, al 10% nel 2019, un crollo anche in termini assoluti (che comunque lascia ancora oggi 700 milioni di persone in questa condizione).
Siamo franchi: nessun sistema redistributivo avrebbe potuto generare questo risultato, un successo clamoroso dei mercati, che per egoismo ci si ostina a sottovalutare sia in occidente, dove la nostra epoca viene considerata di arretramento, sia in estremo oriente dove spesso si attribuisce il ‘miracolo’ ad una qualche ridicola superiorità nazionale.
Si tratta in realtà di miracoli anche troppo prevedibili quando si aprono mercati in condizioni di stabilità politica ed economica, per effetto dell’industrializzazione e del trasferimento tecnologico.
Lo stesso era avvenuto in Italia e Giappone nel secondo dopoguerra.
Un secondo aspetto macroscopico che di fatto viene ignorato nella spiegazione delle nostre convulsioni è la misura in cui il debito ha fornito una àncora di stabilità temporanea alle economie (e ai regimi democratici) in occidente.
La straordinaria ascesa del debito si sintetizza in queste cifre: dal 2000 al 2020 il debito pubblico dei paesi avanzati è cresciuto dal 66 al 123% del PIL, quello delle famiglie dal 83 al 104%, quello delle società dal 57 al 81% (‘Debt: The eye of the storm’ Geneva report on the World Economy 24).
Inutile ricordare che anche la principale bolla speculativa esplosa nel 2008 era alimentata da una spirale di debito immobiliare assolutamente irrazionale e dai comportamenti opportunistici conseguenti.
Ogni paese presenta un mix diverso della propria composizione del debito, ma quello che rileva è che tutte le società avanzate si sono sempre più indebitate ad un costo bassissimo negli ultimi anni.
Secondo molti, i tassi bassi sono effetto di un eccesso di risparmio globale, prodotto di dinamiche generazionali e demografiche anche di alcuni paesi emergenti, Cina sopra tutti, una teoria che va sotto il nome di Global saving glut.
La teoria fu formulata dal Governatore della Federal Bank, Ben Bernanke, uno dei massimi studiosi della crisi finanziaria del 29 che per ironia della sorte dovette affrontare la crisi del 2008.
La crescita del debito, che non ha portato a conseguenze drammatiche per effetto del suo basso costo, indiscutibilmente presenta però enormi rischi per il futuro.
La spesa pubblica presenta una rigidità estrema che non consente grossi margini in caso i tassi di interesse crescano e richiedano aggiustamenti di bilancio.
Secondo alcuni dietro l’abbandono dell’Europa da parte di Trump ci sarebbe la difficoltà a far fronte al grande impegno finanziario che la difesa europea comporta e la necessità di distruggere l’euro per rendere più facile il finanziamento del debito pubblico americano in futuro, data la traettoria instabile dei conti pubblici americani.
Senza un’altra moneta di riserva mondiale affidabile (l’euro), in fondo, il ruolo del dollaro sarebbe ancora al riparo da minacce sensibili per qualche decina di anni.
I ricchi del mondo continuerebbero a considerare il debito americano la scommessa più sicura per ritrovare i soldi.
In queste condizioni caratterizzate dalla fine della crescita nei paesi occidentali prima, e dell’espansione fiscale durata per tutto il secondo dopoguerra fino agli anni 90, finanziata prima con l’aumento di imposte e dopo con crescente indebitamento, la sinistra ha trovato difficoltà sempre più forti a finanziare i servizi sociali, la sua vera ragione sociale.
Il dilemma per molti governi, italiani in testa, è stato in effetti se finanziare decentemente i servizi o se puntare sulla stabilità fiscale, sostanzialmente per non rischiare il default del sistema pensionistico.
Questo, e non le ideologie liberiste, ha rappresentato il vero vincolo all’azione economica dei governi di sinistra in questo secolo.
E per certi versi la progressione impressionante del debito pubblico, sopra ricordata, sembra confermare le ipotesi dell’ultimo serio economista marxista, James O’Connor, che nel suo ‘La Crisi Fiscale dello Stato’, preconizzava che la fine del capitalismo sarebbe arrivata per effetto dei limiti del metodo di stabilizzazione del capitalismo stesso di stampo Keynesiano: l’espansione della spesa pubblica.
Le pressioni sullo Stato per quote sempre maggiori di spesa avrebbero reso alla lunga la situazione insostenibile.
Ma d’altro canto, senza spesa pubblica, il capitalismo tenderebbe naturalmente a crisi endogene di sottoconsumo.
Senza avvallare acriticamente questa tesi, la fonte della crisi attuale delle sinistre sembra avere comunque origine nella perdita di controllo sulla ricchezza e la fiscalità a livello nazionale.
La questione centrale per la sinistra dell’adeguatezza dei servizi pubblici può essere affrontata solo su una scala sovranazionale, con una ripresa del controllo sulla tassazione, soprattutto quella della ricchezza che di fatto sfugge a ogni controllo.
In società mature come le nostre si è alterata in maniera drammatica la relazione tra ricchezza e reddito, con la prima sempre più rilevante nel determinare la posizione sociale di una persona.
Il rapporto tra flusso di eredità e PIL annuale, ad esempio, sta crescendo in maniera impetuosa ovunque ed il paese in cui esso è maggiore è proprio, e non a caso, l’Italia (20%).
È peraltro da notare che questa questione tocca alla base un altro pilastro fondante per i valori di sinistra, l’eguaglianza di opportunità.
Se in una società la provenienza sociale conta sempre di più anche solo meccanicamente perché i patrimoni sono sempre più rilevanti in rapporto ai redditi, la giustizia sociale diventa impossibile.
La questione è però affrontabile solo su scala sovranazionale, il paese che cominciasse a tassare i patrimoni o le eredità in maniera consistente sarebbe certamente penalizzato da una emigrazione di ricchi ancora più consistente di quella già in atto.
Analogamente, è necessario un controllo sulla ricchezza creata dai nuovi colossi digitali (ma anche industriali), che non a caso tentano di distruggere l’Unione Europea.
La strategia europea di creare dei paradisi fiscali interni, come Irlanda e Olanda, e tollerare legalmente piccoli stati parassitari, ha ormai mostrato limiti insopportabili.
Di fatto, questo significa la creazione di uno Stato federale Europeo con tassazione societaria e personale tendenzialmente uniforme.
Ma questa soluzione confligge con lo stato del consolidamento di una comune identità europea.
È necessario prendere atto che la strada imboccata dall’Unione di tentare la creazione di una comunità sulla base della uniformizzazione di regole straordinariamente pervasive non sembra un successo.
Purtroppo, anche l’illusione che si potesse creare una identità europea attraverso l’Erasmus, la spesa per coesione e la circolazione delle classi dirigenti, è tramontata sia perché tutte queste cose riguardano sostanzialmente una élite borghese, sia perché le identità non si comprano con la spesa pubblica.