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Il dato shock, l’Italia ha perso un ricercatore su tre | L’intervento

Di seguito l’intervento di Benedetto Torrisi, docente di Statistica Economica all’università di Catania

Si è acceso il dibattito nel sistema scolastico sul tema del costo della vita e degli stipendi nell’ambito della scuola pubblica.

Ma la questione riguarda anche l’università. Le cosiddette asimmetrie salariali sono presenti nel sistema accademico in Europa, dove sono sempre più presenti leve come produttività, premialità, esternalizzazioni e merito, attrattività e controllo della fuga dei cervelli.

Il tema prioritario di riportare nel nostro Paese i cervelli ad alta specializzazione ha avuto un richiamo anche grazie ai risultati emersi dal rapporto HERe (Higher Education Research) della Fondazione Crui, la Conferenza dei rettori delle università italiane, che associa le università pubbliche e private in Italia.

La domanda che risuona forte è: i salari degli accademici in Europa sono uguali tra i vari Paesi e nei vari ruoli o vi sono macroscopiche differenze?

Possibile immaginare un modello standardizzato di classificazione dei ruoli accademici? Nell’Unione Europea si passa dal salario medio annuo per un ricercatore, adeguato al costo della vita, in Austria o in Danimarca intorno ai 62.000 euro contro i 36.000 in Italia e ai 56.000 della Germania (dati della Commissione Europea stipendi dei ricercatori in Europa, aprile 2007).

Ma quali sono i fattori che influenzano tali disuguaglianze e perché assistiamo ad una fuga dei cervelli?

I modelli statistici adottati dai nostri studi (contributi Torrisi-Monteleone 2012-17), ma anche il rapporto citato della Crui, trovano risposte: il grado il benessere in ambito lavorativo, i benefit o i premi produttività, la presenza di criteri meritocratici nello stato di avanzamento delle posizioni accademiche, gli investimenti in r&s, la composizione delle varie voci stipendiali, le policy a supporto della ricerca e la differente considerazione per l’istruzione.

E per ogni fattore ne abbiamo quantificato il suo contributo allo stipendio medio, ma anche rispetto al pil. L’analisi dimostra ampiamente come i paradossi sono estesi oltre che all’Europa anche a livello nazionale.

Tra i più grandi esportatori di ricercatori troviamo l’India e l’Italia mentre chi importa i nostri cervelli sono il Canada, l’Australia e la Svezia ed in questo scenario dall’Italia si fugge verso la Germania, la Francia e il Regno Unito.

E le motivazioni le abbiamo messe in luce in vari contributi scientifici. La perdita per l’Italia di staff accademico under 40 è del 33%, attribuito dalla Crui alla mancata trasformazione delle classi retributive, dal blocco degli scatti di stipendio negli ultimi 10 anni e dall’abolizione della ricostruzione della carriera con una perdita cumulata tra i 144.000 e i 305.000 per ogni professore universitario.

Tale entità di perdita nell’arco di un decennio equivale al valore medio di un mutuo per l’acquisto di una casa di 100 mq. Il gap negli stipendi medi netti per i docenti universitari tra l’Italia e la Germania è tra il 77% e l’86%, rispetto al 74% del Regno Unito.

La composizione della remunerazione accademica in gran parte dei Paesi Ue è composta dalla componente fissa più la componente variabile ma anche dalla componente legata alla produttività e benefit. In Italia no.

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