“L’Unione europea è quasi cattiva quanto la Cina, solo più piccola”.
Questa vecchia frase di Donald Trump – scrive su Repubblica Marta Dassù – mi è tornata in mente a Washington, dove Aspen Institute Italia ha organizzato un incontro con i think tank vicini alla Casa Bianca.
I nostri colleghi americani non hanno fatto niente per nascondere che l’amministrazione corrente non ama affatto l’Unione europea.
I rapporti con i singoli paesi del Vecchio Continente sono considerati ancora rapporti fra alleati: in particolare con i governi più vicini, come l’Italia.
La relazione con l’Ue è invece vista come competitiva, stabilendo così una separazione netta fra l’Unione e i suoi Stati membri.
La sensazione è che l’America ritenga probabile una disgregazione del Vecchio Continente.
A sei mesi dall’inizio di Trump 2, il vecchio assetto di ciò che chiamavamo Occidente è relegato al cestino della storia.
In parte per ragioni giuste: è chiaro che l’Europa ha delegato troppo a lungo agli Stati Uniti la propria sicurezza, con i costi relativi.
In parte per ragioni sbagliate: l’America sarebbe più forte, probabilmente, se non confondesse alleati e avversari; e se non pensasse che l’indebolimento dell’Ue le conviene.
Soprattutto quando il rivale strategico dichiarato è sempre la Cina.
Con Trump, gli Stati Uniti non sono diventati isolazionisti.
Sono nazionalisti duri, parzialmente protezionisti e occasionalmente interventisti.
L’Europa, in un gioco di potenza del genere, è in netta difficoltà.
Perché non ha chiari i propri interessi comuni e non ha deciso come difenderli, perché comunque dipende dalla deterrenza nucleare americana e perché continua in fondo a sperare che Trump 2 sia una parentesi della storia.
Il cambiamento dell’America, invece, è almeno in parte strutturale e ci impone un bagno di realtà.
Solo su questa base, potremo forse trattare con gli Stati Uniti di oggi, non con quelli di ieri che non esistono più.








