Donald Trump – osserva Giuseppe Sarcina sul Corriere della Sera – confida nella stessa tattica che ha usato il 28 febbraio scorso con Volodymyr Zelensky: «Non hai le carte per fare il duro», puoi solo accettare le mie scelte. Ci sta provando con quel che resta del vertice di Hamas e con Benjamin Netanyahu. Il presidente americano pensa di poter imporre a tutti la sua soluzione, questa volta condensata nel «piano di 20 punti» per riportare «la pace duratura» nel Medio Oriente.
Ai terroristi, Trump chiede una resa senza condizioni, in cambio di un salvacondotto; se non ci stanno, «verranno annientati». A Netanyahu offre l’occasione per mettere fine alla pagina più vergognosa mai scritta da un governo di Israele. Forse già oggi arriveranno i primi segnali da Sharm el-Sheikh, dove riprenderanno i negoziati indiretti tra le parti, con la mediazione di Egitto, Qatar e la supervisione di una delegazione Usa.
In queste ore, i diplomatici europei sono in contatto con i colleghi americani e degli otto Stati arabi e/o musulmani che hanno contribuito alla stesura della «formula Trump» (Egitto, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Giordania, Turchia, Indonesia e Pakistan). Negli ambienti diplomatici, è opinione diffusa che le trattative saranno più complicate di quanto sembri immaginare Trump. Sia Hamas che il governo israeliano hanno dato un assenso di massima allo schema, ma ci sono aspetti chiave da chiarire.
Il problema, allora, è capire se Trump sarà davvero in grado di portare a termine il negoziato, cominciando dal passaggio più urgente: la liberazione dei 20-22 ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas. Lo scetticismo è comprensibile. Però oggi praticamente tutti i leader europei, con o più o meno entusiasmo, appoggiano il tentativo trumpiano. Per un motivo molto semplice: non ci sono alternative, non ci sono altri sentieri che possano condurre almeno alla fine dei massacri.








