Da undici anni, ogni anno battiamo il record negativo della più bassa natalità di sempre. È un declino continuo. Nel 2024, siamo scesi largamente al di sotto dei 400 mila nati.
“Se nel 2025 arriveremo a 350 mila sarà già tanto”, dice Gian Carlo Blangiardo, demografo dell’Università Milano-Bicocca, ex presidente dell’Istat, a fronte dei dati che confermano il trend delle culle italiane sempre più vuote ina una intervista a Italia Oggi. “La popolazione italiana scenderà da 59 a circa 45 milioni entro il 2080. La forza lavoro, cioè cittadini in età lavorativa e dunque tra i 20 e i 66 anni, calerà di 9 milioni di persone. Gli ultranovantenni passeranno da 850 mila a oltre 2 milioni. Siamo in pieno declino demografico. Difficile l’inversione di rotta”.
Partiamo dal dato generale: il numero medio di figli per donna è sceso a 1,18 nel 2024, raggiungendo il minimo storico, secondo i dati Istat. La stima provvisoria per i primi sette mesi del 2025 indica una fecondità ancora più bassa (1,13). Per mantenere costante la popolazione, servirebbero 2,1 figli per donna.
“L’ultimo rapporto Istat non fa che confermare un trend già noto. Anche il 2025 segue la linea di caduta costante che vediamo dal 2008. Da undici anni, ogni anno battiamo il record negativo della più bassa natalità di sempre. È un declino continuo. Nel 2024, siamo scesi largamente al di sotto dei 400 mila nati. Se nel 2025 arriveremo a 350 mila sarà già tanto”.
Quali sono le cause strutturali della crisi demografica?
“Ci sono due livelli di spiegazione: uno appunto strutturale e uno legato ai comportamenti individuali. Il fattore strutturale è semplice: oggi abbiamo meno donne in età fertile perché negli anni ’90 c’è stato un forte calo delle nascite. Quelle bambine non nate allora oggi non possono essere madri. A ciò si aggiunge la composizione per età: le potenziali madri sono un po’ più mature e se anche oggi fanno figli più tardi, se li fanno, spesso non vanno oltre il primogenito. Poi c’è il fattore comportamentale. Oggi i figli si programmano, non capitano più come una volta. Nel 1977, il 41% dei primogeniti nasceva entro un anno dal matrimonio, alcuni anche prima. Oggi c’è controllo, consapevolezza e si decide se e quando fare figli in base a condizioni economiche, lavorative, abitative”.
Quindi la scelta di avere figli è sempre più posticipata…
“Esatto. Si aspetta di avere una casa, un lavoro stabile, una certa sicurezza. E così si finisce per fare il primo figlio magari a 35 o 40 anni. Ma biologicamente non è la stessa cosa che farlo a 25. E spesso il secondo figlio non arriva mai. Per questo tanti restano figli unici”.
Negli ultimi anni si sono introdotti bonus e incentivi per la natalità. Che effetto hanno avuto?
“Non esiste una medicina miracolosa. Servono tante misure coordinate. Il bonus è una delle medicine, qualcosa fa, certo, ma non basta. Occorre intervenire sulle tre C”.
Cioè?
“Il Costo, che è economico ma anche di tempo per le famiglie e soprattutto per le mamme; la Cura, cioè tutti i servizi che ruotano intorno ai nuovi nati, come asili nido, congedi e flessibilità lavorativa; la Conciliazione, le misure per tenere assieme lavoro e impegni familiari. Un esempio: l’aumento dei posti nei nidi, reso possibile grazie agli investimenti fatti con i fondi PNRR, ha avuto un impatto positivo; secondo Istat, in certi comuni ha fatto aumentare le nascite del 7-8%. Non è molto, ma è un passo. Moltiplicando questi interventi, si contribuisce a creare un clima favorevole alla natalità. Fermo restando che la scelta finale è sempre delle persone che sono condizionate anche dalle loro aspirazioni”.
In Europa come sono messi i cosiddetti paesi virtuosi?
“Anche paesi come la Francia o la Svezia, un tempo modelli, oggi registrano un significativo calo delle nascite. La denatalità è un fenomeno comune a molte società avanzate, non riguarda solo l’Italia, proprio perché, come dicevo, incidono sulla scelta di fare figli il contesto sociale ed economico ma anche le aspirazioni di vita delle donne”.
Ci sono alcune regioni italiane, come Trentino-Alto Adige o Valle d’Aosta, che sembrano andare meglio rispetto ad altre, come la Sardegna. Come mai?
“Nel caso del Trentino-Alto Adige, non si tratta di dati sporadici. Ci sono politiche familiari strutturate, integrate, portate avanti da anni con investimenti regionali e provinciali aggiuntivi, stiamo parlando di due province autonome, che hanno consentito di mettere in campo servizi più capillari, congedi parentali più lunghi, conciliazione lavoro-famiglia più efficace. Già 30 anni fa, la Regione introdusse un assegno aggiuntivo per la natalità rispetto alle misure nazionali e addirittura una pensione per le casalinghe, che allora era rivoluzionaria. Nel caso della Valle d’Aosta aspetterei a dire che vi è una chiara inversione di tendenza, i numeri sono piccoli e le variazioni possono essere anche casuali”.
Quali sono le prospettive nazionali?
“Le proiezioni Istat parlano chiaro: la popolazione italiana scenderà da 59 a circa 45 milioni entro il 2080. La forza lavoro, cioè cittadini in età lavorativa e dunque tra i 20 e i 66 anni, calerà di 9 milioni di persone. Gli ultranovantenni passeranno da 850 mila a oltre 2 milioni. Questo significa meno lavoratori e più pensionati e dunque anziani da assistere. E mentre molti pensano che il vero problema siano le pensioni, in realtà la vera emergenza sarà la sanità: una popolazione molto anziana comporta costi sanitari enormi”.
E l’immigrazione? Potrebbe compensare la denatalità?
“L’immigrazione dà un contributo, ma non è la soluzione, bisogna essere onesti. Nel 2024, su circa 370 mila nati, 50.000 sono figli di coppie straniere. E altri sono nati da coppie miste. Quindi sì, incidono. Ma nel 2012 gli stranieri facevano 80 mila nati: oggi sono 30 mila in meno, pur con un milione di stranieri in più. Anche gli stranieri dunque adottano gradualmente i nostri comportamenti e fanno meno figli”.
Quindi la narrazione degli immigrati che salveranno il sistema previdenziale è falsa?
“Si tratta di semplificazioni pericolose. Bisogna considerare diversi fattori. Ci sono i costi del processo di integrazione, in termini di formazione, assistenza e sanità. Poi c’è il tema delle carriere contributive deboli per gli stranieri che invecchieranno da noi: molti lavorano in nero o con redditi bassi, quindi versano poco in termini previdenziali, ma dovranno avere comunque una pensione dignitosa. Dunque il surplus contributivo che oggi presentano, rispetto alle prestazioni erogate, sarà pienamente recuperato come voce di bilancio in uscita”.
In conclusione?
“Serve una strategia complessa, con una visione di lungo periodo, con interventi su più fronti: famiglia, lavoro, servizi, educazione, conciliazione, integrazione. Ma dobbiamo anche accettare l’idea che si tratta di fenomeni storici che in parte sono irreversibili. C’è stato un cambiamento, forse troppo rapido ma non possiamo annullarne gli effetti, dobbiamo solo trovare il modo di governarli senza intaccare la qualità della vita delle persone”.








