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Fisco e salari: ecco i grandi nodi da sciogliere | L’analisi

Il primo grande nodo da sciogliere sul lavoro è quello fiscale. In Italia il cuneo fiscale e contributivo sfiora il 46% del costo del lavoro, contro una media OCSE del 34%.

In Germania si ferma al 38%, in Francia al 45%, mentre nel Regno Unito scende al 30%.

In concreto, un salario già basso viene ulteriormente eroso dalle imposte, lasciando alle famiglie sempre meno capacità di spesa.

È un meccanismo perverso che blocca i consumi, indebolisce la domanda interna e frena la crescita.

A questo quadro si somma la questione salariale.

I dati OCSE ci raccontano una verità scomoda: la retribuzione media annua lorda di un lavoratore italiano è tra le più basse dei Paesi industrializzati.

Rispetto ai nostri concorrenti siamo fanalino di coda: in Francia si guadagna circa il 20% in più, in Germania il 30%, nel Regno Unito quasi il 40%.

Mentre altrove le retribuzioni crescono, da noi restano ferme.

È la fotografia di un Paese che rischia di non attrarre più investimenti e di vedere impoverita la sua classe media.

Intanto, gli sprechi della spesa pubblica continuano a erodere risorse.

Da anni si preferisce ridurre i servizi essenziali o introdurre tasse occulte, invece di riformare seriamente la spesa e ridurre le inefficienze strutturali.

È più facile scaricare i costi sui cittadini, che pagano senza vedere miglioramenti reali.

Così il sistema resta bloccato, incapace di liberare risorse da destinare a politiche di sviluppo e di sostegno ai redditi.

Un altro fronte è quello della contrattazione collettiva.

Troppo spesso rigida e sganciata dalla produttività, non stimola né impreselavoratori.

Servirebbe un modello orientato ai risultati, sostenuto da incentivi fiscali, capace di premiare la qualità e distribuire reddito in modo più equo.

Ma non basta. Bisogna introdurre un vero riconoscimento del merito: oggi le differenze retributive tra qualifiche basse e alte sono troppo ravvicinate.

Il risultato è una doppia distorsione: chi lavora meglio non è motivato a impegnarsi di più, e chi ha titoli e competenze emigra all’estero, attratto da stipendi più alti e carriere meritocratiche.

È un impoverimento che il Paese non può più sopportare.

Su tutto questo pesa l’atteggiamento della politica, che da decenni preferisce lo scontro sterile e lo scaricabarile piuttosto che affrontare i problemi alla radice.

Ma il tempo dei rinvii è finito.

È indispensabile tornare a un approccio riformatore serio, capace di fissare obiettivi chiari e misurabili, coinvolgendo non solo le istituzioni ma anche le parti sociali e la società civile.

Come ricordava Giovanni Paolo II, il lavoro e il salario non sono solo questioni economiche, ma riguardano la dignità della persona e la responsabilità sociale.

È un monito che vale ancora oggi.

Se vogliamo un’Italia capace di competere, servono decisioni coraggiose: riformare il fisco, rilanciare i salari, rendere efficiente la spesa pubblica, ridisegnare la contrattazione.

Ogni giorno perso ci costa posti di lavoro, competitività e fiducia nel futuro.

Non bastano promesse, servono politiche concrete per restituire dignità al lavoro e forza alla nostra economia.

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