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[L’intervento esclusivo] Emanuele Bompan (giornalista ambientale): «Vivremo un’estate di blackout diffusi, ma il mondo della stampa ancora non riesce a raccontare correttamente la questione ambientale»

I RELATORI

Il video integrale del webinar

Emanuele Bompan è Editor-in-chief Renewable Matter. Si occupa di economia circolare, cambiamenti climatici, innovazione, energia, mobilità sostenibile, green-economy, politica americana. Riportiamo il suo intervento al webinar organizzato dall’Osservatorio economico e sociale Riparte l’Italia dal titolo “Clima, scenari futuri tra comunicazione e sensibilizzazione”. L’evento è stato moderato da Antonello Barone, ideatore del Festival del Sarà, ed ha visto la partecipazione anche di Alessandra De Savino Comunicatrice, Arpae Emilia-Romagna e Società Cervelli in Azione.

La situazione dei media oggi

Innanzitutto c’è un tema di “dieta mediatica”, siccome noi siamo abituati a nutrirci di informazione, soprattutto informazione di notizie oggi, soprattutto i social media ma anche un mondo dell’informazione sempre più orientato a un modo di parlare e descrivere breve, succinto, rapidissimo, ha fatto sicuramente calare la nostra capacità di leggere testi complessi, di tenere elevata una soglia di attenzione su argomenti che richiedono strategie di lettura non semplici. Nonostante sia costantemente migliorata la scolarizzazione della popolazione italiana, sebbene indietro rispetto alla media di altri Paesi europei. Il numero dei laureati va in continuo aumento, le persone che hanno un titolo e che dovrebbero essere in grado di fruire di contenuti complessi sono in aumento.

Rimane comunque molto elevata la difficoltà di assimilare, non interiorizzare perché siamo talmente stimolati da una molteplicità di informazioni, dai feed delle singole persone, dei singoli social che dal punto di vista della crescita intellettuale hanno un impatto molto limitato, ma chiaramente un interesse estremamente elevato, fino alla grande pletora della comunicazione complessa.

Io come giornalista ricevo ogni giorno 500/600 comunicati stampa, a volte di cose anche interessanti ma che non hanno nulla a che vedere con il mio lavoro, dai diritti di genere all’innovazione tecnologica che sono tematiche interessantissime ma distraggono dal mio lavoro principale, quindi dal mio core di informazioni.

Questo è altrettanto valido per chiunque che trova i giornali sempre più accessibili, i social, i siti, i canali di informazione, i blog, una quantità abbondantissima di informazione ma che poi da un lato non sempre, anzi quasi mai, ha la qualità necessaria soprattutto su temi come quelli del cambiamento climatico, temi scientifici, temi di grande complessità. E dall’altro disabitua sicuramente il lettore a prestare attenzione a un articolo lungo magari dieci o ventimila caratteri, che richiede tra l’altro anche quindici minuti di lettura che molto spesso si fa fatica a trovare anche a causa di ritmi di vita più forsennati.

Lo smartworking ha portato anche un affatticamento mentale ulteriore.

La troppa informazione

C’è quindi un’inflazione della quantità delle informazioni e una deflazione della qualità delle informazioni, due fenomeni che vanno di pari passo. Questo è molto pericoloso, specie in un sistema mediatico come quello italiano dove la gente non considera più l’informazione una merce di valore: vogliamo gli abbonamenti gratis, andiamo su telegram a scroccare illegalmente gli abbonamenti dei giornali che poi magari sfogliamo e non leggiamo veramente.

Questo ha un riflesso sulla qualità del giornalismo che dipende sempre di più dall’inserzionista, in modo anche meno libero, perché un conto sono i soldi del lettore un conto sono i soldi di una multinazionale che compra su tutti i giornali pubblicità in grande abbondanza. Questo porta un risultato di un peggioramento che non è diffuso perché per fortuna rimangono oasi fortunate di giornalismo di qualità.

Vediamo però molti giornalisti “mordi e fuggi” che vengono pagati 5 o 10 euro a notizia, possiamo ben capire un articolo scritto per il valore di 10 euro che tipo di qualità possa avere. Per non parlare poi della partigianeria.

Paradossalmente il media è diventato il linguaggio nel senso che su google, sull’informazione digitale dove alla notizia si arriva con un motore di ricerca, o si arriva attraverso i social, è normale che si tenda a favorire o un linguaggio molto semplice e molto di pancia oppure titoli urlati e sensazionalistici, ancora di più di come si faceva con la carta stampata.

La presenza della cattiva stampa è oggi peggiorata, perché è dappertutto, è pervasiva e sempre di più totalizzante la cultura soprattutto del SEO che va a peggiorare la qualità generale della scrittura. Si dice sempre che per far felice un computer bisogna scrivere come un ragazzino di 13 anni, con frasi brevi, non troppo complesse, evitando lemmi desueti e complicati, e questo ha anche chiaramente poi un impatto.

Anche se questo sta cambiando, vediamo negli ultimi anni un ritorno del long form, del giornalismo di qualità anche nel giornalismo ambientale.

La “catastrofe ambientale” sui media

Tocco un secondo la questione della “catastrofe” perché è una tematica che non so mai esattamente come prendere per avere equilibrio.

Il problema è che la linea rossa è stata superata, la scienza ce lo dice chiaramente, però allo stesso tempo la narrativa che racconta solo la catastrofe senza dare anche una possibile soluzione, quindi certezza che se non si fa nulla si va verso una vera catastrofe anzi siamo già come vediamo in questi giorni di siccità in una situazione discretamente grave nel nostro Paese, ma allo stesso tempo il fenomeno delle eco-ansie, che è sempre più studiato e sempre più interessante, ci racconta come anche bisogna comunque dare degli strumenti per accelerare l’uscita dalla catastrofe, sia essa la protesta, anche fisica, anche sul campo come sta avvenendo in questi giorni con l’ultima generazione, sia nell’azione politica, nel voto, nella tecnologia, nelle policy che poi molto spesso sono il grande ostacolo alla transizione ecologica.

Le tecnologie ormai ci sono, le abbiamo quasi tutte sul range delle possibilità. Ci troviamo però di fronte a un muro veramente forte, e sto scrivendo un editoriale che uscirà tra qualche giorno su un giornale per cui collaboro, su un intero mondo, soprattutto collegato alla destra, principalmente ma non solo, di sovranisti che ormai ragionano in maniera anti-ambientalista per opposizione presa, non per reale riflessione. Ci sono conservatori, anche cattolici, il mondo sovranista non capisce che ad esempio la transizione a energia rinnovabile fa parte del portato ideologico proprio loro. Quando si parla di sovranità energetica si parla proprio di quello, quindi essere meno dipendenti da fonti esterne, essere meno dipendenti da stati di cui non si ha un vero controllo.

No al negazionismo ambientale

Oggi è molto importante andare a sanare quel divario polarizzante che è nato dagli Stati Uniti da un certo punto di vista ma che era presente in realtà in Italia da molti anni spinto da alcuni politici più interessati ai voti che alla propria ideologia, e questa narrativa sui media è molto pesante, basta prendere La Verità, Il Giornale, Il Foglio e via dicendo che troviamo queste pseudo-narrative anti auto elettriche e anti-rinnovabili. Ci sono poi posizioni negazioniste verso i cambiamenti climatici che vanno affrontati e vanno trattati, bisogna trovare necessariamente anche a livello narrativo un ponte comune con questo mondo che sennò altrimenti rischia di puntare i piedi non tanto per reale interesse politico, ma semplicemente perché ormai bisogna fare muro contro muro, testa contro testa urlando sui social come dei deficienti.

Lo scenario internazionale

Siamo in un mondo che soprattutto qua in Italia si conosce non tantissimo, proprio perché manca una buona fetta di giornalismo in grado di raccontare il livello internazionale. Produciamo ottimi inviati di guerra ma poi abbiamto difficoltà a trovare persone in grado di spiegare gli altri mondi, basti pensare a quanti pochi corrispondenti ci sono dalla Cina. E questo non dipende solo dal fatto che la Cina adotti delle politiche restrittive sull’informazione, ma proprio perché mancano scuole di giornalisti competenti per raccontare il mondo cinese che di fatto è un diverso, perché è un quarto della popolazione mondiale.

Quello cinese è un mondo che va compreso nella sua complessità non monolitica perché esistono poi tante Cine, così come esistono tante Americhe, e io ho fatto per quattro anni il corrispondente dagli Stati Uniti. Anche quello è un mondo che sta vivendo una retromarcia culturale e i segnali che arrivano sulla decarbonizzazione non sono per niente positivi considerando che comunque è il Paese più “sprecone” pro-capite per misura al mondo ed è uno dei Paesi più inquinanti sempre pro-capite al mondo.

E’ anche giusto capire le richieste di alcuni Paesi che ovviamente vogliono e devono garantire una stabilità interna attraverso la crescita economica. La Cina non può avere insoddisfazione economica essendo uno Stato che si prende estremamente cura dei suoi cittadini, tra virgolette. C’è un forte spostamento di autorità sul potere centrale, ma se questo non è effettivamente in grado di provvedere per lo meno per la maggioranza, questo può causare gravi instabilità.

L’India che rimane una democrazia per quanto con problemi simili a quelli dell’Italia anni ’80, corruzione su tutte, è un altro Paese di quelli che pesa tantissimo, insieme al Brasile, un’altra democrazia o anche la stessa Nigeria che sono Paesi che hanno quel gradi di autoritarismo ma non sono la Nord Corea, per intenderci.

In questi Paesi il peso delle emissioni pro-capite è comunque inferiore a quello del mondo industrializzato, non solo in Occidente, ma anche per esempio in Giappone.

La necessità di poli di competenze

Sulla narrativa climatica ed energetica secondo me quello che serve oggi è la creazione di competenze molto forti e evitare la dispersione in tanti piccoli progetti che stanno nascendo in questo momento e che sono segno di buona volontà, ma molto spesso poi non hanno l’impatto necessario.

Lo vediamo ad esempio a livello europeo con la nascita di fondazioni importanti come l’European Climate Foundation, che lavorano proprio per creare una comunicazione strutturata sulle tematiche della decarbonizzazione. E la grossa sfida è capire come sta avvenendo la decarbonizzazione, come vengono messe a terra nel nostro Paese e nei Paesi in giro per il mondo. Oggi la vera chiave è raccontare come si sta progredendo, come si stanno mettendo a terra gli obiettivi e i contributi nazionalmente determinati alla decarbonizzazione dentro l’Accordo di Parigi.

E’ lì la grande sfida da fare, e se in Europa questo effettivamente un po’ si sta facendo, in tanti altri Paesi si riesce a fare meno, perché non ci sono risorse o competenze per fare questo tipo di reporting proprio in zone dove anche l’accesso alla stampa è molto limitato, pericolosissimo, difficile non solo per questioni linguistiche ma soprattutto per questioni politiche, militari e di sicurezza nazionale.

Quindi oggi se c’è una sfida del mondo della comunicazione è quella di mettere da parte l’informazione amatoriale che disperde le risorse economiche e concentrarsi nei centri di competenza veri, sostenerli soprattutto economicamente e politicamente, affinché facciano veramente il lavoro della stampa cioè quello di cani da guardia. E il lavoro dei cani da guardia è quello di sorvegliare sul processo di decarbonizzazione.

E’ difficile per me che dirigo una rivista ambientale riuscire a trovare collaboratori molto competenti su alcune tematiche, molto spesso sono persone che non vengono dal mondo del giornalismo, nascono nel mondo del diritto ambientale, dell’ingegneria ambientale, delle scienze ambientali. Hanno una formazione in quel senso e poi è più facile formarli da giornalisti.

Spiace per le scuole di giornalismo, ma poi è più facile come all’estero imparare una scienza e un sapere e poi applicarlo nel giornalismo.

La vecchia guardia deve fare posto

C’è anche il tema che molti giornalisti nel nostro mondo sono vecchi, è gente che fa fatica ad adattarsi a queste tematiche, non ha le competenze, non parla inglese, non sa leggere le ricerche scientifiche, e questa è una vulnerabilità molto importante.

Se vai a fare un incontro con giornalisti che si occupano di ambiente e clima a livello europeo ti trovi sempre con colleghi più giovani e molto formati. Mentre da noi c’è tanta gente che vuole percorrere questa carriera perché effettivamente c’è molto più spazio rispetto agli anni passati ma ancora mancano le risorse.

Gran parte delle iniziative su temi ambientali sono marchettare, nel senso che sono apertamente sostenute dalle aziende quindi su alcuni temi non ci si può troppo arrampicare, non c’è un sostegno da parte dei lettori se non in alcuni casi di crownfunding o di piccole testate molto preziose che fanno comunque un ottimo lavoro, ma se penso ai premi di giornalismo internazionali dove per fare un’inchiesto arrivano a fornire premi di 50-60 mila euro, i premi per il giornalismo italiano di solito sono cose ridicole. Non ci sono pool di risorse economiche per il giornalismo investigativo ambientale o per un giornalismo di qualità ambientale.

Dove ci sono bandi per le investigazioni ambientali sono molto sporadici e spot, come quella di Domani. Il direttore è molto giovane, l’idea è quella giusta, ma potrebbe fare di più loro ma anche altre testate, in televisione c’è ancora molto poco.

In Italia le risorse ci sarebbero pure, stiamo parlando di una delle grandi economie del G7, di un paese dove ci sono molti giovani competenti, che possono essere portati avanti, ma ci sono anche delle cariatidi che purtroppo si attaccano alla poltrona e non si levano. Nonostante siano già in pensione, ancora scrivono. Bisogna fare spazio ai giovani, noi possiamo coordinare, lavorare nella parte di project manager, nella parte di direzione o di inchiesta, ma su tante altre cose servono forze fresche e serve mettere a sistema le risorse.

Tutti vogliono fare la testata giornalistica, tutti vogliono avere la piccola quota della pubblicità o dei soldi dei lettori, a volte invece serve fare processi di merge acquistion anche nel giornalismo cosa che non esiste minimamente nel nostro mondo, quindi eliminare i rami deboli e tenere solo quelli forti. E’ un normale processo di economia di mercato.

Il giornalismo ha due funzioni da sempre, da un lato è quello di divulgare al numero più elevato possibile di cittadini e questo sui temi ambientali si fa da un certo punto di vista anche attraverso una semplificazione, un buon lavoro di creare interesse. Però il fatto di andare a vedere i bilanci di emissione di Co2 delle grandi aziende e capire cosa stanno facendo, magari interessa a pochi, ma ha un impatto democratico fortissimo.

A un certo punto i cittadini se ne accorgono, esattamente come è successo con Mani Pulite, dove inizialmente non c’era alcun interesse nei lavori della Magistratura poi quando si è capito che dopo l’arresto di Mario Chiesa c’era un universo di corruzione, tutti si sono messi a osservare la cosa.

Quindi nel momento in cui ci si accorge tutti parlano di decarbonizzazione ma in realtà non si sta facendo nulla, ci sono dietro trame estremamente torbide come per esempio quando venne fuori il diesel gate, poi la gente ascolta e si ricorda queste cose. Ma se ne ricorda anche se ci sono notizie di qualità, e notizie di qualità si fanno con le inchieste, si fanno con i reportage.

La gente non legge tante notizie sull’ambiente perché sono pesanti, noiosi, ci sono articoli fatti in maniera copia e incolla, senza intervista o senza grandi lavori di reportage. Banalmente la semplice fotografia deve essere di qualità, ci sono alcune foto che raccontano più dell’articolo e oggi non si finanzia questo tipo di lavoro. Lo stesso per i video. Se noi non abbiamo la forza narrativa della grande fotografia perdiamo qualità. E’ chiaro che essendoci poche risorse la fotografia è una delle prime cose che si taglia, ma poi la gente preferisce guardarsi un film o leggere un grande romanzo perché almeno c’è della qualità dietro. La gente la riconosce la qualità.

La fiducia bisogna guadagnarsela, i lettori devono pagare per avere la qualità ma dall’altro lato la qualità bisogna saperla offrire.

Il linguaggio per parlare delle questioni ambientali

Quando si parla di ambiente bisogno appellarsi più a un senso di misura piuttosto che a un senso di privazione. In questo il linguaggio è molto importante, così come penso che nelle narrative oggi sempre di più la realtà ci dia strumenti per cui anche l’economia, anche l’impatto economico è evidentemente misurabile. Sappiamo bene verso che estate stiamo andando, forse a tutti non è ancora chiaro, ma avremo black out diffusi visto che l’acqua serve anche a raffrescare le centrali termoelettriche, oltre che quelle idroelettriche che sono sempre più vuote, quindi con sempre meno pressione e sempre meno possibilità di produrre energia.

E questo causerà danni economici significativi nei prossimi due mesi. Ne risentiranno il mondo della produzione industriale ma anche il mondo del turismo, immaginiamoci dei black out negli hotel o nei luoghi di villeggiatura, oltre che il rischio di assenza di acqua o di razionamento dell’acqua.

Certo dobbiamo dare anche una valutazione etica e valoriale che però facciamo fatica a trovare,soprattutto quella del diritto alle generazioni future ad avere accesso; il mondo di oggi è estremamente egoistico, soprattutto il mondo occidentale, ma in tutto il mondo capitalistico. Lì la sobrietà diventa un valore, per cui ancora ci può stare bene preservando un livello di qualità della vita medio gradevole e piacevole.

La parola che mi sento di lasciare è quella di sostenere l’informazione di qualità in modo tale che possa continuare a crescere e che possa fornire quel livello di informazione di qualità e di sorveglianza sui fenomeni politici ed economici che necessitiamo in questi prossimi critici quindi anni della sfida per la decarbonizzazione.

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