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Ecco perché le retribuzioni hanno perso potere d’acquisto | L’analisi di Sergio De Nardis

Sulla base dell’accordo tra le parti sociali del gennaio 2009, le retribuzioni si negoziano ogni tre anni nei contratti nazionali prendendo a riferimento la previsione dell’Istat (prima del 2011 quella dell’Isae) dell’indice dei prezzi al consumo al netto dei prodotti energetici importati (indice IPCA-NEI).

Questo accordo non ha evidentemente funzionato nell’ultimo periodo caratterizzato dalla forte fiammata inflazionistica. Le retribuzioni orarie contrattuali hanno perso infatti circa l’8% in termini reali nel quinquennio 2020-2024.

Una caduta concentrata nel 2022-23 quando lo shock energetico si è riverberato sull’intera struttura dei prezzi interni, andando ben al di là dell’impatto diretto che l’accordo del 2009 intendeva (con motivazioni di principio ragionevoli) neutralizzare.

A ben vedere, vi sono due motivi di meccanica contrattuale che non hanno funzionato, dando luogo al calo reale delle retribuzioni nell’arco di rinnovi verificatisi, peraltro, con ampi ritardi.

Il primo è la sottostima, in previsione, dell’inflazione misurata da IPCA-NEI nel 2022-23, cioè del dato che doveva far da guida agli incrementi contrattuali di quegli anni.

Per esemplificare, chi ha rinnovato nel 2020-2021 per i 3 anni successivi aveva a riferimento una previsione della dinamica di IPCA-NEI che è poi risultata cumulativamente di oltre 11 punti più bassa della realizzazione.

Ma anche chi ha rinnovato nella prima metà del 2022 si è trovato penalizzato, con uno scarto di 6 punti tra previsione e dato effettivo.

Che vi fossero errori di stima era considerato nel protocollo del 2009. L’accordo infatti stabilisce che l’Istat calcoli gli scarti tra realizzazioni e previsioni che devono essere oggetto di contrattazione e recupero nei rinnovi seguenti.

Ed è qui il secondo motivo del calo delle retribuzioni reali. Quel recupero nei contratti post-2023 non si verifica. Le retribuzioni reali prendono a crescere nel 2024-25, ma meno di quanto precedentemente perso.

In un primo passaggio hanno, quindi, influito errori di stima, condivisi peraltro da tutti i previsori che non attendevano shock energetici.

È nel secondo passaggio che emerge l’inefficacia della contrattazione, in particolare dei sindacati, non in grado di porre rimedio alle precedenti sottovalutazioni delle previsioni di inflazione.

In tale contesto, contratti più frequenti, che non cristallizzassero gli effetti di attese errate, avrebbero probabilmente dato prova migliore.

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