Negli anni ’90 dello scorso secolo la riforma del lavoro, la cosiddetta “flexsecurity” di matrice socialdemocratica (misure che conciliano l’aumento della flessibilità dei rapporti di lavoro con quelle della tutela dei lavoratori per i rischi della perdita del lavoro e per aumentare l’occupabilità delle persone) ha orientato un’intera stagione delle politiche del lavoro del welfare degli Stati aderenti alla Unione Europea.
Nello stesso periodo il mondo del lavoro in Italia ha vissuto per molti anni una crisi strutturale. Le difficoltà che milioni di lavoratrici e lavoratori hanno affrontato quotidianamente sono aggravate da politiche spesso orientate alla deregolamentazione del lavoro. La disoccupazione giovanile, la disparità territoriale e di genere e una precarizzazione crescente disegnavano un panorama allarmante, che metteva a rischio la coesione sociale, minando così alla base la dignità della persona umana.
In Italia, per rispondere a questa situazione, sono state scritte varie norme sulle politiche di flessibilità e di tutela dei lavoratori: nel 1997 la Legge Treu, nel 2001 il Libro Bianco sul mercato del lavoro del compianto Prof. Marco Biagi e nel 2015 il Jobs Act che ha, quest’ultima legge, concretamente dato una risposta anche al tema della flessibilità e delle garanzie dei rapporti di lavoro, con l’estensione a tutti i lavoratori degli ammortizzatori sociali, come ad esempio nel settore dell’artigianato e della Indennità di disoccupazione (Naspi).
Il confronto tra le nostre dinamiche del mercato del lavoro e dei salari con quelle dei paesi europei che hanno adottato la “flexsecurity”, rafforzando l’integrazione tra i percorsi di formazione e quelli lavorativi, la conciliazione dei carichi lavorativi con quelli familiari e la crescita dei salari collegata all’incremento della produttività, è preoccupante.
I dati parlano chiaro. Per molti anni i tassi di partecipazione al lavoro erano tra i più bassi in Europa, con una particolare penalizzazione per le donne. Le lavoratrici a part-time erano 1,6 milioni nel 2004 e sono salite a 2,7 milioni nel 2019, compreso il part-time involontario. Anche tra gli uomini si è visto un incremento, pur restando su numeri inferiori: da 400 mila a quasi 900 mila nello stesso periodo.
Preoccupante è soprattutto la condizione dei più giovani: oltre un terzo degli under 34 lavorava con un contratto temporaneo, una quota che scende drasticamente con l’età. Questo significa che, ancora oggi, l’ingresso nel mondo del lavoro avviene sempre più tardi e in forme meno tutelate, basti pensare agli stagisti e non solo.
A questo scenario si somma un progressivo impoverimento del lavoro: i salari reali sono diminuiti, mentre aumenta il numero di lavoratori poveri, spesso costretti ad accettare impieghi instabili o sottoqualificati per sopravvivere.
Le tutele necessarie per uscire dal lavoro nero, da quello povero e da quello non regolarizzato sono molteplici. Per poter contrastare lo sfruttamento, l’evasione e l’insicurezza nei luoghi di lavoro è necessario garantire controlli efficaci e capillari attraverso investimenti strutturali in termini di risorse tecnologiche, ulteriori organici e di maggior collaborazione ed interazione tra le banche dati degli istituti di vigilanza.
Inoltre, la precarietà va affrontata con politiche che incentivino l’emersione e la stabilizzazione, investendo nell’orientamento, nella formazione e nella valorizzazione delle competenze. Per questo ha una sua importanza anche il rapporto tra la scuola e il mondo del lavoro. Il sistema Duale (apprendistato) e la formazione professionale per molti anni sono sempre stati contrastati da una certa posizione ideologica ancora presente nel nostro paese, così come gli ITS.
Gli Istituti tecnologici superiori sono percorsi formativi post-diploma di alta specializzazione tecnica. Il loro obiettivo è quello di formare professionisti qualificati in settori strategici che partono dalla tecnologia e arrivano fino all’innovazione e all’industria, con un tasso di occupazione superiore all’85% entro un anno dal riconoscimento del titolo di studio e consentono di svolgere nel 93% dei casi una mansione coerente con la formazione ricevuta.
La situazione attuale del mercato del lavoro in Italia continua ad avere una maggiore stabilità contrattuale, crescono i contratti a tempo indeterminato (anche perché i datori di lavoro non vogliono perdere le professionalità che sono state formate in azienda) e calano quelli a termine.
Ogni mese escono i dati sull’occupazione e il dibattito si concentra sulle minime variazioni, percentuali che salgono e scendono di pochi decimali. Si tratta di un’analisi importante, che serve per seguire la tendenza di un mercato del lavoro che, in Italia, sta crescendo in quantità come difficilmente si poteva immaginare solo qualche anno fa.
L’inversione di tendenza con l’aumento degli occupati è in corso da alcuni anni. Ed è avvenuta senza interventi normativi per la contemporanea riduzione demografica della popolazione in età lavorativa e per la difficoltà delle imprese a trovare lavoratori con le caratteristiche coerenti con i profili professionali richiesti.
Nei primi cinque mesi del 2025 l’occupazione ha raggiunto i 24,3 milioni di occupati, con un tasso di occupazione maschile pari al 71% e quello femminile al 54%.
Ma se analizziamo la composizione di questa crescita, emerge un dato importante: nell’ultimo anno, il 90% dei nuovi occupati è over 50. Tutte le altre fasce d’età sono in affanno: gli occupati tra i 25 e i 34 anni calano di 10 mila unità, quelli tra i 35 e i 49 anni di 17 mila, solo gli under 25 aumentano di 52 mila unità.
Questa dinamica non è una contingenza di breve periodo ma è legata in parte ai cambiamenti demografici, al risultato in atto da vent’anni e accelerata dalla riforma Fornero, che ha innalzato l’età pensionabile trattenendo nel mondo del lavoro centinaia di migliaia di persone. Basti pensare che dal 2005 a oggi, gli occupati tra i 50 e i 64 anni sono aumentati di 4,2 milioni, mentre quelli sotto i 50 sono diminuiti complessivamente di oltre 3 milioni.
Di fronte alla crescita occupazionale degli ultimi anni è evidente che nessuna riforma o patto del lavoro, senza l’aumento di produttività, non produce l’inclusione promessa, anzi indebolisce ancor di più il legame tra lavoro e dignità, tra lavoro e occupazione di qualità.
Il lavoro va inoltre tutelato nella sua dimensione umana, relazionale e creativa.
È tempo di costruire un’economia che rimetta al centro la persona e il rispetto dei suoi diritti.
Perché un lavoro privo di dignità è un’offesa non solo alla giustizia, ma anche alla dignità delle persone.
Il fallimento dei referendum sul lavoro è un’occasione importante perché le parti sociali possano recuperare un proprio ruolo, non delegato alla politica, come è successo nei giorni scorsi sul protocollo quadro sulla emergenza climatica negli ambienti di lavoro, firmato al Ministero del Lavoro.








