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Da sempre a fianco dei minori e dei più deboli | L’intervista a Rosetta Cappelluccio, presidente della Fondazione I Figli degli altri

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Psicologa e psicoterapeuta, la dr.ssa Rosetta Cappelluccio dirige la Fondazione I figli degli Altri, nata a Napoli nel giugno 2022.

Dr.ssa Cappelluccio, grazie per la sua disponibilità. Lei è una psicologa, psicoterapeuta, esperta in traumi, abusi e disagi nell’età evolutiva. Docente di Psicologia clinica e consulente di numerose Procure che si sono occupate di diversi casi di abusi su minori. Di recente ha scritto il suo primo libro, al quale ha dato lo stesso titolo della Fondazione che presiede: “I figli degli altri”. Chi sono esattamente “Gli Altri”?

“Gli Altri” sono quei bambini e adolescenti che spesso restano invisibili: figli della povertà educativa, della trascuratezza, della violenza assistita, del silenzio colpevole degli adulti. Sono i minori che portano sulla pelle storie non scelte, ma subite. Ho voluto dare voce a loro — ai figli degli altri — perché nel mio lavoro clinico e nelle consulenze giudiziarie ho incontrato decine, centinaia di vite spezzate troppo presto, eppure ancora piene di desiderio di riscatto.

Ma “gli altri” siamo anche noi, ogni volta che giriamo lo sguardo o ci chiudiamo nella neutralità. “Gli Altri” sono anche quelli che nella “stanza dei giochi” – descritta nel libro – si sono sentiti usati, violati, fraintesi. Sono bambini come Marina, che dissocia per sopravvivere, o come Michele, che si trasforma in Harry Potter per trovare potere e protezione. “Gli altri” sono i minori che non riescono a essere visti se non attraverso test, disegni, sguardi evitanti o sogni notturni. E ogni volta che noi adulti scegliamo il silenzio o l’indifferenza, diventiamo parte di questo “altro” che ha dimenticato come si guarda un bambino.

Di solito si è portati a pensare che certe cose, come gli abusi nelle mura domestiche, accadano soltanto in famiglie che vivono in ambienti degradati. Sulla base della sua esperienza, è veramente così?

Assolutamente no. Il trauma e l’abuso non hanno un solo volto né un solo contesto. Lavorando da anni come consulente delle Procure, ho osservato come la violenza possa celarsi dietro l’apparenza della normalità, nelle case ben arredate e nei quartieri “perbene”, così come nei contesti più fragili. L’abuso si annida dove c’è disuguaglianza relazionale, silenzio, adulti narcisisticamente centrati, e una cultura che ancora fatica a riconoscere la soggettività del bambino.

La negazione del trauma è trasversale. Il caso di Federica lo dimostra con chiarezza. Una famiglia “normale”, un padre anziano, una madre sopraffatta, una perdita luttuosa mai elaborata — e dentro quella fragilità, l’abuso da parte del fratello. L’ambiente benestante non è un fattore protettivo se manca la capacità di ascolto. Le radici del trauma sono relazionali, non economiche. Il libro restituisce storie in cui l’abuso è stato reso possibile non solo dalla devianza, ma soprattutto dalla cecità.

I protagonisti del suo libro sono bambini e adolescenti molto fragili, che risultano perciò più esposti a forme di aggressione fisica e psichica. In una età in cui il gioco e la fantasia dovrebbero essere il loro quotidiano, sono costretti, invece, a lottare per superare il disagio degli abusi e la vergogna e reticenza nel parlarne. Chi o cosa potrebbe aiutare davvero Federica e Marinella (due delle protagoniste del suo libro) secondo lei?

Federica e Marinella — come tanti bambini vittime di trauma relazionale precoce — hanno bisogno prima di tutto di qualcuno che veda, nomini e regga ciò che è accaduto. Non serve una terapia spettacolare, ma una relazione stabile, empatica, coerente. I modelli che propongo nel libro si basano sulla neurobiologia dell’attaccamento, sull’approccio EMDR, sulla terapia delle parti e sulla regolazione bottom-up (somatica).

Come ricorda Ruth Lanius, è l’integrazione delle memorie traumatiche implicite a permettere un cambiamento reale. E come insegna Joyanna Silberg, non possiamo aspettarci che parlino, se prima non si sentono al sicuro nel corpo e nella relazione. Entrambe hanno espresso il trauma anche attraverso disegni simbolici: un albero mai nato, occhi chiusi nelle figure umane, mani grandi che non sanno afferrare il mondo. Questi bambini hanno bisogno di un’alleanza terapeutica che lavori anche con la memoria implicita, e con le difese che li hanno salvati, prima ancora che feriti.

La stanza della terapia diventa così, come mostra il libro, una “vera” stanza dei giochi, in cui si può ricominciare a vivere anziché sopravvivere.

La scuola ha indubbiamente un ruolo fondamentale nella formazione e nell’educazione dei giovani; tuttavia, è la famiglia per prima che dovrebbe educare ed essere di esempio per i figli. Cosa accade realmente quando gli adulti, genitori, non hanno chiaro il concetto di “normale”?

Quando l’ambiente familiare è esso stesso disorganizzato, non mentalizzante, o peggio ancora violento, il concetto di “normale” si deforma. Per molti bambini che ho incontrato, la violenza è l’unico linguaggio appreso. Non hanno strumenti per distinguere la cura dal controllo, l’amore dalla dipendenza. In questi casi, come afferma Daniel Siegel, il cervello si sviluppa su circuiti disfunzionali, e la dissociazione diventa un meccanismo di sopravvivenza.

La scuola può — e deve — diventare il primo contesto correttivo, educativo anche in senso relazionale, offrendo modelli di attaccamento sicuro secondario. La storia di Alessia — coinvolta nel caso di Chicca — mostra un esempio drammatico: una bambina che mente per proteggere il clan familiare, che si masturba mentre è in questura, che mostra nei test segni di sessualizzazione precoce. Quando la devianza si trasmette come normalità, i confini generazionali si dissolvono. Il rischio maggiore è che il trauma venga “adottato” come modo di stare nel mondo. È qui che la scuola, come spazio altro, può offrire il primo imprinting relazionale sano.

I bambini di cui parla nel suo libro, pur provenendo a volte da realtà socio-culturali differenti, sono accomunati dal coraggio e dalla voglia di superare il disagio patito e, allo stesso tempo, dalla speranza di un futuro migliore. Esiste davvero la possibilità di cambiamento?

Sì, esiste. E ne sono testimone ogni giorno. Il cambiamento non è un’illusione, ma un percorso possibile se si lavora sull’integrazione cerebrale, sull’autoregolazione, sull’accesso alla memoria emotiva, come descritto nel modello del memory reconsolidation (Ecker et al.).

Ho visto bambini che non parlavano più trovare le parole per dire “non era colpa mia”. Ho visto adolescenti autolesivi smettere di ferirsi dopo aver riconosciuto e accolto la loro parte bambina ferita. Il cambiamento è faticoso, ma reale, quando sostenuto da una rete competente e affettiva. Il percorso di Vincenzo lo mostra bene: da ragazzo abusato da una donna adulta e potente, pieno di colpa e vergogna, diventa adolescente in grado di distinguere tra un amore “sporco” e uno libero da dominio.

Nei test TAT, Vincenzo passa da storie di impotenza a narrazioni di liberazione e riscatto. Questo è il cambiamento: la possibilità, neurobiologicamente fondata, di rinarrare la propria storia senza restarne prigionieri.

La sua Fondazione “I Figli degli Altri” ha dato vita a una iniziativa lodevole, il progetto P.A.R.L.A. (Prevenzione di aggressività, rischi, legalità e abusi), un centro di ascolto per tanti ragazzi ai quali manca un punto di riferimento. Non pensa che una iniziativa simile, se proposta anche ai genitori, potrebbe essere di ulteriore beneficio?

Assolutamente sì. Il progetto P.A.R.L.A., attivo in diverse scuole della Campania, nasce proprio dal bisogno espresso dai ragazzi stessi: ascolto, giustizia, affetto, protezione. Ma ogni intervento efficace sul trauma evolutivo deve coinvolgere anche i caregivers, quando possibile.

Per questo stiamo ampliando il progetto con spazi dedicati a genitori, educatori e insegnanti, offrendo formazione sul funzionamento del cervello traumatizzato, la disregolazione emotiva, la riparazione relazionale. Come dimostrano i modelli di psicoeducazione familiare tratti da Silberg, Treisman e Malacrea, lavorare anche con gli adulti aumenta l’efficacia dell’intervento sul minore.

La prevenzione è una responsabilità condivisa. Il libro lo mostra chiaramente: nessun intervento sul trauma può essere completo se non si lavora anche con gli adulti significativi. L’omertà delle madri, l’assenza dei padri, la trascuratezza sistemica sono elementi che rendono cronicamente insicuro il contesto di vita del minore. La nostra Fondazione sta sperimentando laboratori emotivo-relazionali anche con i genitori: usare disegni, storie, giochi di ruolo per aiutare anche loro a “sentire” di nuovo. Educare è riparare. E nessuna riparazione è efficace se non è condivisa.

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