Sul Corriere della Sera Francesco Giavazzi prende spunto dagli esempi virtuosi, “pur così diversi”, della Corea del Sud e di Taiwan per trarre due lezioni “importanti” per l’Italia.
“Cominciamo dalla Corea del Sud. Comprimere i salari e proteggere le imprese dalla concorrenza internazionale, come si è fatto a lungo in Italia, a cominciare con le limitazioni all’importazione di automobili giapponesi, sono entrambi freni alla crescita. Comprimere i salari (forse) aumenta l’efficienza e i profitti aziendali, difficilmente aumenta la produttività. Che sarebbe accaduto della Fiat se non fosse stata protetta dai bassi salari e dalle quote sulle auto importate? Può darsi che sarebbe fallita, ma può darsi anche che lo stimolo alla sopravvivenza l’avrebbe resa più simile alla Toyota. Bassi salari non significano solo, come vediamo oggi, bassi redditi, scarsi consumi e crescita asfittica. Significano anche scarsi pungoli a puntare sulla produttività. Corollario: la presidente del Consiglio si vanta dei dati sull’occupazione. Ha ragione, gli occupati crescono. Ma sono tutti lavori a bassa produttività, come si deduce osservando che gli occupati crescono ma il Pil non si muove, anzi ora pare addirittura aver iniziato a scendere”.
“La seconda lezione – prosegue Giavazzi – riguarda la politica industriale, cioè il ruolo del governo nel guidare l’economia. È vero che il più delle volte il governo, quando interviene, fa disastri. Basti pensare alla storia dell’acciaio di Stato che in pochi decenni portò al fallimento dell’Iri (l’Istituto per la ricostruzione industriale), il chaebol pubblico italiano. Dalla sua nascita, negli anni ’30, all’inizio degli anni ’70, l’Iri fu il fiore all’occhiello dell’industria italiana. Poi la politica se ne appropriò, iniziò a prendere decisioni ‘strategiche’ (ad esempio abbandonare i tubi a «passo pellegrino» in favore dei tubi saldati), e la siderurgia pubblica cominciò a perdere soldi. Le privatizzazioni degli anni ’90 ne salvarono una parte, ad esempio la Dalmine ritornata alla famiglia Rocca, i vecchi azionisti privati, che nel frattempo avevano costruito Tenaris, un leader mondiale dell’acciaio. Allo Stato rimase l’Ilva, cioè gli impianti di Taranto, trent’anni fa i più grandi e i più moderni d’Europa. Dopo varie vicissitudini alcuni anni fa si aprì la possibilità di un’alleanza con gli indiani, ma tanto fece il ministro Urso che gli indiani scapparono e con essi scapparono anche altri potenziali acquirenti. Oggi Ilva si sta lentamente spegnendo. In un mondo in cui abbiamo imparato a nostre spese che un po’ di autonomia nell’approvvigionamento e nella lavorazione delle materie prime è la condizione per continuare ad essere un Paese che produce manifattura (ancora il 15 per cento di tutto ciò che produciamo) mi pare un delitto perfetto”.








