“Se non si costruirà la Gigafactory a Termoli in Molise ci ritroveremo a comprare auto non solo elettriche, ma anche endotermiche, prodotte dai cinesi”. La facile profezia esposta nella primavera del 2024 si sta avverando. L’incertezza di ACC (joint-venture composta da Stellantis,Mercedes-Benz, Total-Energies) di realizzare la Gigafactory di batterie dove sorge lo stabilimento che dal 1972 ha prodotto i motori della FIAT, preannuncia l’assenza di un’alternativa industriale per il polo automobilistico di Termoli. La notizia è alla fine arrivata: lo stabilimento Stellantis in Molise ha fermato la produzione per un anno, con 1823 lavoratori collocati in contratto di solidarietà e il congelamento dell’investimento da oltre 2 miliardi, con 400 milioni di euro di fondi del PNRR, per la Gigafactory progettata da ACC si è trasformato un addio.
La scelta segna un punto di non ritorno nella parabola dell’automotive italiano ed europeo perché mostra con chiarezza come le difficoltà industriali non siano più un fenomeno congiunturale, ma strutturale. Termoli non è un episodio isolato: è un simbolo. Da polo storico della della meccanica motoristica era stato designato a diventare il cuore pulsante della nuova era elettrica di Stellantis. La promessa di una Gigafactory, la prima in Italia, tassello cruciale nella strategia di sovranità industriale europea sulle batterie, si scontra oggi con la realtà di un’industria che perde competitività giorno dopo giorno.
La crisi europea e la pressione cinese
Il nodo centrale è la rapidità con cui i produttori cinesi stanno conquistando il mercato globale dell’auto elettrica. Mentre in Europa ci si divide fra incentivi insufficienti, regole ambientali severe contrastate dai partiti e dai governi di destra e strategie aziendali attendiste, in Cina Pechino ha sostenuto con forza il settore sin dal 2009, sia sul fronte industriale che tecnologico. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: BYD ha sorpassato Tesla per volumi, altri marchi cinesi stanno sviluppando piattaforme digitali e architetture elettriche all’avanguardia e il costo medio di un’auto elettrica made in China resta nettamente inferiore a quello dei concorrenti europei.
Non è solo questione di prezzo: è la capacità di innovare lungo l’intera catena del valore, dalle batterie al software, che oggi rende le case cinesi non un fenomeno passeggero, ma un avversario strutturale. L’Europa si ritrova stretta in una morsa. Da un lato gli obiettivi di decarbonizzazione fissati a Bruxelles impongono una trasformazione rapida e costosa, allo stesso tempo l’incertezza sullo stop alle vendite di auto a combustione interna dal 2035 per l’opposizione di partiti e governi di destra, non dà chiarezze a produttori e consumatori. Dall’altro, la mancanza di un piano industriale comune europeo e la lentezza degli investimenti in ricerca, sviluppo, infrastrutture e gigafactory rendono il continente vulnerabile.
L’Italia in bilico
In questo scenario l’Italia paga più di altri. La filiera automotive nazionale, pur ricca di know-how e competenze, è troppo frammentata e sottodimensionata. Stellantis, nata dalla fusione tra FCA e PSA, ha accentrato le scelte strategiche a Parigi e Amsterdam, ridimensionando progressivamente il ruolo degli stabilimenti italiani. Lo stop di Termoli è solo l’ultima tappa di una serie di riduzioni e razionalizzazioni che hanno colpito Pomigliano, Mirafiori, Melfi. E mentre in Italia i lavoratori vengono messi in cassa integrazione o stentati da contratti di solidarietà in Marocco o in Usa Stellantis investe miliardi. Il paradosso è evidente: il Paese che fu patria di Fiat, simbolo dell’auto europea di massa, rischia oggi di restare semplice subfornitore marginale in una catena globale dominata da attori stranieri e da capitali che non hanno più alcun legame con l’Italia.
La promessa di una Gigafactory in Molise era la dimostrazione che un futuro nell’elettrico era possibile. Il governo Draghi ci aveva creduto, investendo oltre 11 miliardi di euro nella transizione all’elettrico e spingendo per sostenere la scelta del sito prescelto nel mezzogiorno d’Italia. Il governo Meloni non crede nella transizione all’elettrico e ha spostato oltre 4 miliardi di quel fondo per investimenti nel campo della difesa. Il congelamento del progetto della Gigafactory di Termoli e il relativo fermo del vecchio stabilimento suonano invece come un avvertimento sul rischio di desertificazione industriale.
I nodi irrisolti
Tre restano sul tavolo le questioni irrisolte.
Primo, la politica industriale: il governo italiano appare oscillante tra la difesa dell’occupazione e la ricerca di partner internazionali, ma senza una visione di lungo termine sulla mobilità elettrica. Gli incentivi alla domanda sono intermittenti e modesti, incapaci di creare un mercato domestico che giustifichi grandi investimenti produttivi.
Secondo, la dimensione europea: i progetti di Gigafactory sostenuti da Bruxelles sulle batterie procedono con lentezza e frammentazione. Senza una cabina di regia forte, ogni Paese gioca in solitaria, mentre i concorrenti cinesi consolidano le posizioni.
Terzo, il tema sociale: ogni fermata produttiva si traduce in migliaia di lavoratori sospesi, in territori che non hanno alternative occupazionali. Termoli rischia di diventare un deserto industriale, con ricadute che vanno ben oltre il Molise e toccano il tessuto sociale dell’intero Mezzogiorno. E la notizia dell’investimento del gruppo automobilistico molisano DR di 70 milioni di euro per raddoppiare il centro di assemblaggio in provincia di Isernia, con 300 nuovi posti di lavoro, appare un pannicello caldo su una ferita che meriterebbe ben altre cure. Da innovatori e produttori di tecnologia automobilistica sovrana a meri assemblatori di auto cinesi.
Uno spartiacque
La crisi di Stellantis a Termoli deve essere dunque letta come uno spartiacque. Non è soltanto una semplice vertenza aziendale: è il segnale che senza un’azione decisa l’Italia, insieme all’Europa, rischia di perdere il treno della transizione elettrica. Non basta invocare “più tempo” o “più incentivi”: serve una strategia organica che unisca governo, imprese e sindacati in una visione comune. Il modello cinese non è replicabile, ma può insegnare qualcosa: pianificazione di lungo periodo, investimenti massicci in ricerca e sviluppo, controllo delle materie prime strategiche. L’Europa non può più permettersi il lusso delle mezze misure. La domanda a cui rispondere è semplice: l’Italia vuole essere protagonista o spettatrice nella nuova era dell’automotive?
Nel primo caso occorre agire subito: creare un ecosistema delle batterie e del software, sostenere le imprese della componentistica nella riconversione, attrarre investimenti esteri e capitale umano con politiche certe e stabili. Nel secondo caso Termoli sarà ricordata come il luogo dove la palla dello sviluppo industriale poteva essere fatta ribaltare per dare vita a nuovo ciclo e invece si è preferito farla lentamente fermare per inerzia. In gioco però non c’è solo un settore, ma la capacità stessa del Paese di restare agganciato al cuore dello sviluppo industriale europeo che ha garantito il benessere per milioni di cittadini nel dopoguerra ad oggi. L’avanzata cinese non aspetta.