«Una cosa è sicura: in Italia non c’era un piano pandemico in quel momento. Quello che doveva essere fatto dal ministero, e in particolare da un ufficio del ministero della Salute già anni prima», l’aggiornamento del piano, «non era stato fatto, non c’era in quel momento quindi. E questa cosa forse avrà pesato. Dico forse, perché non sono sicuro in che termini e in che misura poi abbia pesato su tutta la vicenda». A sottolinearlo all’Adnkronos Salute è il virologo Massimo Clementi, che ha diretto per anni il Laboratorio di microbiologia e virologia dell’ospedale San Raffaele di Milano e ha vissuto la pandemia nelle sue fasi proprio da lì.
«Non entro ovviamente nel merito dell’inchiesta di Bergamo perché non ho elementi né giuridici né tecnici per farlo», aggiunge Clementi. Riavvolgendo il nastro di quello che è stato, sulla scia delle contestazioni della procura di Bergamo relative alle prime fasi di gestione della pandemia, si arriva fino al nodo della mancata zona rossa per le aree bergamasche duramente colpite dal virus e alle morti che si potevano evitare, uno dei punti su cui si è proprio concentrata l’inchiesta arrivata alla chiusura in questi giorni.
«È difficile entrare in questa valutazione, soprattutto per un estraneo alle decisioni di quel momento. Il governatore della Lombardia» Attilio Fontana «dice sono decisioni che doveva prendere il Governo centrale e penso che sia così, in realtà. Però ci deve essere un piano da attuare in queste condizioni e che quindi sia chiaramente applicato. Cosa che non c’è stata».
E, aggiunge Clementi nella sua riflessione, «uno dei componenti del primo Comitato tecnico scientifico, Ranieri Guerra, era la persona che quando era al ministero si doveva occupare del piano pandemico», che andava aggiornato. «Questo» relativo all’assenza di fatto di un “copione” da seguire «mi pare uno degli aspetti che anche il microbiologo Andrea Crisanti nella sua relazione ha sottolineato e che va evidenziato. Per il resto non so dire, perché sono elementi molto tecnici».








