La battuta “questa volta è differente” divenne celebre fra gli economisti dieci anni fa, all’epoca dell’ultima grande recessione.
Esplosa nelle banche e nella finanza, si diceva, anziché nel mondo della produzione, la recessione del 2008 sarebbe stata più lunga – non di mesi, ma di anni – del normale. Così è, in effetti, avvenuto.
Ma questa volta è ancora più differente.
La crisi in corso scaturita da un evento totalmente esterno, come la pandemia, sarà ancora più lunga e lascerà cicatrici più profonde nel tessuto dell’economia, affondando aziende ed emarginando lavoratori.
Il soccorso messo in piedi dai governi – in Italia, come altrove – per quanto massiccio, rischia, però, fino a che resta centrato su forme di sostegno salariale, come la nostra cassa integrazione, di scavalcare le vittime principali della crisi.
I giovani, anzitutto: l’84 per cento dei contratti a termine, dice l’Istat, è stato cancellato, ma ad affondare non è solo il precariato, perché questa crisi ha colpito sproporzionatamente, anche giovani con contratti stabili. La differenza più netta con il passato, tuttavia, è che a pagare il prezzo della crisi sono le donne più degli uomini.
I dati raccolti dai ricercatori del Fondo monetario, attraverso le celle dei telefonini Vodafone, sulla mobilità delle persone in Italia, in Portogallo, Spagna, mostra il diverso impatto del lockdown dell’anno scorso su uomini e donne. A dieci giorni dall’imposizione delle misure di restrizione, la mobilità delle donne era scesa del 17 per cento, quella degli uomini del 13. Ma è diverso anche l’impatto sulle diverse fasce di età. Per i più giovani, fra i 18 e i 24 anni, la mobilità si riduce del 22 per cento, mentre il resto della popolazione sta intorno al 13 per cento. Diverso per età, ma, in questo caso, controintuitivo, perché è il contrario di quanto ci aspetteremmo, è l’”effetto paura”.
Nelle zone in cui si registra un raddoppio dei contagi, infatti, dopo 10 giorni, per strada, ci dice Vodafone, non ci sono le persone che penseremmo di vedere: gli adulti fra i 25 e i 65 anni riducono le sortite fuori casa del 2-4 per cento, i giovani fra i 18 e i 24 addirittura del 10 per cento. La categoria più a rischio, quegli over 65 su cui il Covid ha l’impatto più letale, subisce invece, assai meno, anzi quasi per nulla, l’effetto paura. Dopo dieci giorni, gli anziani hanno ridotto le uscite, rispetto a prima dell’esplosione dei contagi, del 2 per cento. Ma, dopo altri dieci giorni, escono di casa il 3 per cento di volte in più.
Dove l’anomalia economica della pandemia e delle sue quarantene si mostra più chiaramente, tuttavia, è nell’impatto sul posto di lavoro, fra uomini e donne. Mathias Doepke e altri studiosi tedeschi e americani lo hanno studiato negli Usa, dove il mercato del lavoro è, per molti aspetti, diverso da quello europeo, ma ha il merito di reagire più rapidamente alle novità e di offrire molte più statistiche. E il primo dato, che sottolinea la differenza fra il Covid e le altre crisi, è il diverso effetto occupazione sui due sessi.
Dagli anni ’70, ad ogni crisi, sono stati gli uomini a perdere più facilmente il lavoro, in buona misura perché la recessione colpiva più le industrie dei servizi. Il picco arriva nel 2009, nella grande crisi finanziaria, quando gli uomini che perdono il lavoro sono l’1,9 per cento in più delle donne. Nel 2020, il gap è rovesciato: a ritrovarsi disoccupate è il 2,9 per cento di donne in più.
Spia della natura eccezionale di questa crisi è il dato che si riferisce non all’aumento dei disoccupati, ma degli inattivi, cioè di chi, perso il posto, rinuncia a cercarne un altro. La partecipazione delle donne alla forza lavoro (che comprende anche la ricerca attiva di nuova occupazione) crolla del 20 per cento, quella degli uomini del 9.
Difficile non vedere in questa inedita fuga dal lavoro l’effetto diretto delle quarantene e delle chiusure delle scuole, con i figli a casa. Lo studio mette, tuttavia, in evidenza che questa fuga ha effetti a lungo termine, molto al di là della fine delle quarantene. Per le donne, come per chiunque altro, ritrovare, in una epoca di contratti sempre più precari e di allargamento dell’automazione, un posto di lavoro all’altezza, in termini di salario e di garanzie, del precedente può rivelarsi molto complicato. Ma il ruolo che il lavoro femminile ha all’interno dell’economia familiare rischia di allungare le ombre di una delusione personale sull’intera economia.
Spesso, infatti, lo stipendio che la donna porta a casa integra il reddito familiare e, nelle recessioni precedenti, che più avevano risparmiato il lavoro femminile, ha funzionato da cuscinetto di assorbimento, ammortizzando l’impatto che la crisi ha sugli altri redditi di casa. Stabilizzare il reddito vuol dire anche stabilizzare il livello di consumi. Se il cuscinetto non c’è, diminuiscono i consumi, sia perché in casa ci sono meno soldi, sia perché si tende a tesaurizzare quelli che entrano per parare i rischi che la crisi evoca. Meno consumi equivale a meno domanda. E la ripresa si allontana.








