Il dibattito sulla tassazione degli extra profitti delle banche – scrive Pietro Reichlin su La Stampa – rivela qualcosa di non detto nel rapporto tra governo e settore creditizio. Secondo il Presidente del Consiglio e alcuni partiti di governo, le banche dovrebbero dare il maggiore “contributo” a sostegno della manovra fiscale per un principio di equità, o a parziale risarcimento per benefici ottenuti “senza merito” negli ultimi anni. In particolare, Meloni cita la discesa degli spread e le garanzie sui crediti del superbonus del governo Conte.
Queste osservazioni non sono prive di fondamento. Non c’è dubbio che le banche, insieme agli altri settori produttivi, ottengono benefici o penalizzazioni come conseguenza delle politiche pubbliche. Nel caso delle banche, la crescita dei profitti si deve anche all’aumento dei tassi sugli attivi, a cui non è seguito un pari aumento della remunerazione dei depositi. Più o meno il contrario di quanto successe prima del Covid, quando i bassi tassi d’interesse avevano annullato il margine di intermediazione.
Da quando il settore dell’intermediazione e del credito è stato privatizzato, all’inizio degli anni ’90, ci è stato detto che le banche erano soggette alla legge del mercato e, come accade per ogni altro settore economico privato, dovevano competere ad armi pari, avere bilanci solidi e garantire una redditività adeguata agli azionisti. Se questo fosse vero, sarebbe logico che i governi trattino le banche nello stesso modo delle altre imprese, in termini di imposte dovute e norme a tutela della concorrenza.
È evidente che il settore del credito ha caratteristiche peculiari che rendono necessaria una regolamentazione specifica a tutela della stabilità finanziaria (come i requisiti di capitale, le riserve, la trasparenza), ma la regolazione è prevalentemente decisa in sede europea e sulla base di logiche che non dovrebbero dipendere dalle politiche fiscali dei governi.








