Nei commenti sulla manovra fiscale – osserva Guido Tabellini su Repubblica – vi è una critica ricorrente al governo: il fiscal drag. Per recuperare l’inflazione sono saliti i salari nominali e l’imposizione progressiva sul reddito ha comportato un aumento automatico dell’aliquota d’imposta, senza che aumentasse il salario reale. Ma è vero? Se ci si limita a confrontare l’andamento della pressione fiscale e dell’inflazione, sembrerebbe di sì: la pressione fiscale è salita proprio dopo il balzo dei prezzi negli anni del Covid.
Tuttavia gli andamenti aggregati sono fuorvianti. Una ricerca recente della Banca centrale europea, ripresa e approfondita dall’Osservatorio sui conti pubblici italiani, ricostruisce le riforme fatte dal 2019 a oggi per compensare gli effetti del fiscal drag su ogni classe di reddito. La risposta che emerge è molto diversa dalla vulgata comune. Le riforme tributarie realizzate in questi anni, sommate ai tagli dei contributi sociali per i lavoratori dipendenti (introdotti nel 2022 e successivamente ampliati e resi strutturali), hanno più che integralmente compensato il fiscal drag tra il 2019 e il 2023.
Per il 2024, il fatto che le entrate fiscali siano cresciute più dei redditi da lavoro si spiega interamente con la progressività delle imposte, a seguito dell’aumento osservato nei salari reali (cioè depurati dall’inflazione). La politica fiscale del governo può essere criticata da molti punti di vista, ma lasciamo perdere il fiscal drag.
Tutto bene, dunque, sul fronte del lavoro e dei salari reali? Non proprio. I salari reali di fatto (cioè inclusivi anche della contrattazione aziendale) al lordo delle imposte sono ancora in media circa il 4% sotto il livello pre-Covid. La colpa non è del fisco, però: è la contrattazione che non ha recuperato tutta la perdita di potere d’acquisto dovuta all’inflazione, favorendo così un aumento della quota di reddito che va al capitale anziché al lavoro.








