Sulla finanza pubblica, da quando si è insediato il Governo Meloni, si è invertita la marcia, a confermarlo è l’Istat.
Il dato più significativo arriva proprio dall’indebitamento netto delle Amministrazioni pubbliche, che si è più che dimezzato, attestandosi intorno al 1,3% del PIL, con un saldo primario positivo, ridotto di 7 volte rispetto all’inizio del mandato del Governo Meloni.
Ciononostante, il costo degli interessi è cresciuto di oltre il 10% e la pressione fiscale naviga ai livelli 2020, con un incremento intorno all’1%.
Questi numeri, seppur sicuramente migliorabili, hanno consentito a una delle tre sorelle del rating, Fitch, di elevare il rating Italia a «BBB+» con outlook stabile. Un risultato strepitoso visto che da oltre cinque lustri il giudizio rimaneva ai limiti del sostenibile.
L’aggiornamento, totalmente super partes, è stato possibile grazie a una politica fiscale prudente, mirata agli obiettivi di bilancio a breve e medio termine indicati dalla UE.
La previsione espressa da Fitch punta a un calo del deficit che si attesta intorno al 3% del PIL, in diminuzione del 10% rispetto al previsionale.
Unico neo persistente è quello del debito, che, secondo Fitch, potrebbe superare il 135% nel 2025 e aumentare di un ulteriore 2% nel 2026.
La prossima sfida da superare, fattibile grazie ai progressi registrati nel saldo delle partite correnti, alla maggiore stabilità politica e alla disciplina fiscale mantenuta dal Paese, è quella di ridurre il debito pubblico. Uno scenario plausibile che, se raggiunto, sarebbe stellare.
Bene ricordare che per tutti i governi precedenti, insediati da inizio secolo, si temeva addirittura un declassamento alla fascia high yield, ovvero dovere corrispondere un tasso di interesse insostenibile, che viceversa oggi è uguale a quello che corrisponde lo Stato francese ed è sempre più vicino a quello tedesco, con gli investitori che sono così fiduciosi da pensare che si possa riuscire in un periodo medio-breve, puntando ad ottenere la fascia «A» del merito creditizio.
Purtroppo resta il pernicioso problema dell’insufficiente crescita, che non riesce ad abbattere il debito, e parimenti gli altrettanto insufficienti redditi del lavoro dipendente.
È tempo che il Governo concentri la sua azione su una politica industriale che veda il partenariato del capitalismo familiare italiano e un loro nuovo e possente coinvolgimento nelle imprese manifatturiere, ma anche nel terziario e nel commercio.
La responsabilità della politica di essersi letteralmente dimenticata, per decenni, dell’esigenza di pianificare una politica industriale in grado di aumentare la competitività, va sicuramente condivisa con le rappresentanze datoriali e con i sindacati dei lavoratori.
È tempo, anzi, il tempo è già scaduto, in cui i decisori del sistema socio-economico – politica, imprese, lavoratori, affiancati dal sistema bancario – si inoltrino e definiscano una politica industriale di lungo corso di almeno 10 anni e suoi multipli.