L’assalto a Gaza City – commenta su Repubblica Lucio Caracciolo – si ritorce contro Gerusalemme, mentre ha fatto di Hamas il simbolo della causa palestinese su scala globale. Ma il capo di Israele non può accettare un qualsiasi compromesso perché suonerebbe ammissione di sconfitta. Quando si entra nella logica della guerra totale, potenzialmente infinita perché fine a sé stessa, in genere si finisce male.
Dopo essersi inchiodato alla sua propaganda, il premier israeliano sta trascinando nel gorgo la patria. Israele affronta lo scenario dell’orrore che nelle scuole militari di tutto il mondo è modello da evitare come la peste: la guerra urbana. Aggravata dal fatto che di Gaza City ce ne sono molte: quella di superficie, ormai azzerata, più i vari strati disegnati da centinaia di chilometri di tunnel dove si annidano ancora miliziani di Hamas.
Israele si assume davanti alla storia la responsabilità della liquidazione di una popolazione civile trattata quale banda di terroristi. Peggio: “animali”. Non bastasse, Netanyahu sacrifica gli ostaggi, a rischio di finire uccisi per errore dai suoi stessi soldati e/o di essere usati quali scudi umani da Hamas.
Quale che sia l’esito militare dell’operazione in corso, criticata dallo stesso capo di Stato maggiore delle Forze armate che la stanno eseguendo, se ne intravedono già gli effetti sul piano interno e internazionale. Le crepe nello Stato profondo israeliano, con il Mossad che rifiuta di partecipare all’attacco contro i dirigenti di Hamas a Doha (quindi lo fa fallire) e le aspre dispute fra governo e militari, oltre che tra alcuni ministri, espongono le faglie che da ben prima del 7 ottobre minano la fabbrica sociale e istituzionale di Israele. Lo Stato ebraico è in crisi di identità. Lo conferma il rifiuto di molti riservisti di andare in battaglia.