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Andrea Garnero, Ocse: «In Italia i salari orari sono cresciuti, ma il reddito complessivo è al palo» | L’intervista su Il Riformista

Guerre, dazi, riassetto dei mercati globali: in un periodo di forte incertezza l’occupazione cresce, anche se meno di quanto avessimo pensato, a quanto dice la recente revisione Istat.

Il vero problema – afferma il primo report annuale del Cnel sul tema – è la produttività, che non cresce. E di conseguenza i salari, troppo bassi.

Ne abbiamo parlato con Andrea Garnero, economista della Direzione Occupazione, Lavoro e Affari Sociali dell’Ocse, che alla questione salariale ha recentemente dedicato un libro.

Partiamo dalla revisione dei dati dell’Istat, che ha ridotto di 120mila unità il numero degli occupati. Ci si interrogava sul maggior aumento dell’occupazione rispetto al Pil, questo riporta in equilibrio le due misure? “Innanzitutto, va detto che le revisioni statistiche sono ordinarie, tanto più dopo la pandemia, quando tra shock e ripresa i modelli statistici hanno faticato. Lo abbiamo visto anche negli Stati Uniti. Per l’Italia, la correzione riavvicina occupazione e Pil, ma il disallineamento non scompare del tutto. La questione della maggior crescita dell’occupazione rispetto al Pil rimane”.

Come si spiega? In una fase di forte incertezza come quella attuale dovrebbe accadere il contrario. “È una dinamica osservata anche in altri Paesi Ocse: Pil debole, ma mercato del lavoro sorprendentemente solido. Questo suggerisce che ci sia qualcosa di strutturale che riguarda i costi relativi dei fattori produttivi. Potrebbe aver contribuito l’aumento dei costi energetici che, semplificando, ha reso più conveniente ricorrere al lavoro che non all’energia, spingendo i settori labour intensive.

È stato presentato il primo Rapporto annuale sulla produttività, voluto dal Cnel, in cui si sottolinea – anche in tempi di occupazione crescente – la stagnazione di produttività e salari. Nel libro “La questione salariale”, scritto con Roberto Maina, affronta il tema a partire dai dati Ocse. Cos’è successo in Italia?

“L’indicatore Ocse misura il reddito annuo da lavoro pro capite, non la paga oraria. I salari orari sono cresciuti anche in Italia, anche se meno che altrove, ma il reddito complessivo è rimasto fermo o addirittura si è contratto se guardiamo i 30 anni fino al 2023. Questo perché si è allargata la base di chi lavora, ma al contempo il lavoro è divenuto più frammentato, più intervallato da periodi di disoccupazione o inattività, più caratterizzato da rapporti part-time, da contratti stagionali, in settori a bassa retribuzione.

L’ampliamento delle forme contrattuali ha impoverito il lavoro? “Ha avuto effetti compositi. Più part-time e contratti temporanei significano redditi annui più bassi, ma hanno consentito a più persone di entrare nel mercato del lavoro.

Su quali settori pesa di più la questione salariale? “Nei comparti a basso valore aggiunto, nelle imprese di dimensioni molto ridotte, che in Italia sono numerose. È lì che la produttività è ferma”.

La produttività è il nodo. L’accordo del 1993 tra Governo e parti sociali (il cosiddetto Protocollo Ciampi) prevedeva di redistribuire gli aumenti di produttività attraverso la contrattazione di secondo livello, che però non è decollata. Perché? “L’accordo mirava a superare definitivamente il modello di contrattazione collettiva degli anni ’70 e con esso la scala mobile, che generava inflazione. Purtroppo, l’accordo arrivò controtempo, quando l’aumento della produttività incominciava a tendere a zero. Anche per questo la contrattazione di secondo livello ha finito per diffondersi solo nelle imprese più grandi e competitive, dove la produttività è cresciuta, senza però diventare uno strumento di sistema”.

Il Rapporto Cnel mostra l’aumento della produttività negli altri Paesi europei (+0,7% in media tra 2014 e 2024), mentre da noi il blocco. Perché? “È credibile la tesi che rimanda alla mancata rivoluzione informatica negli anni ’90. L’Italia fu colta impreparata, ci si limitò a integrare macchine elettroniche senza vera innovazione, senza cambiare il modo di lavorare. Il rischio è ripetere lo stesso errore oggi con l’AI.

L’AI non sta portando aumenti di produttività? “Al momento gli effetti misurabili sono modesti o nulli, e non solo in Italia. L’adozione dell’AI è ancora sperimentale e potrebbe essere troppo presto per vederne gli effetti nei dati. Ma potrebbe darsi che a mancare sia un vero rinnovamento dei processi, senza il quale non si verificano aumenti tangibili della produttività. Il rischio è mancare la rivoluzione, come negli anni ’90”.

Per diventare produttive le tecnologie richiedono competenze che le imprese non trovano sul mercato. È questo il problema? “In parte sì, non basta comprare macchinari o software se poi non si hanno le competenze per usarli. Serve investire nel capitale umano: istruzione, formazione continua. Ma la questione non riguarda solo i lavoratori: c’è un gap di competenze che riguarda il management e che va colmato perché è a partire dal livello manageriale che si ridisegnano i processi produttivi. Le grandi imprese si stanno muovendo, ma il punto è accompagnare le piccole. Qui le associazioni datoriali possono giocare un ruolo cruciale”.

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