Da diversi anni, più o meno di questi tempi, mi capita di leggere dettagliati de profundis dedicati alla Festa dell’Unità. Mancano i volontari, da qualche parte si decide addirittura di cambiare il nome, in altri casi non si fa proprio più. Nell’era digitale dei social e degli influencer, probabilmente trova spazio l’idea che un appuntamento del genere appartenga alla preistoria politica. A un passato ormai ammuffito.
Forse è così, o forse quell’incultura socio-politica che ha portato a tralasciare sempre di più il presidio del territorio e delle comunità, sta per mettere a segno un nuovo colpo alla capacità della sinistra di stare tra la gente. Perché se c’è un momento storico in cui la Festa dell’Unità ha senso è proprio quello che stiamo vivendo: per quanto ha rappresentato nella storia della sinistra italiana e per ciò che può ancora significare.
Qual è il significato di un appuntamento come la Festa dell’Unità? Provo a dirlo dal mio punto di vista e quindi sulla base della mia esperienza personale. Di osservatore e di frequentatore “non allineato”.
La prima volta che mi affacciai alla Festa dell’Unità, avevo 15 anni e un solo pensiero: che i miei non lo venissero a sapere. Soprattutto mia madre, cattolica fervente e visceralmente anti-comunista, come da insegnamenti di una famiglia che conservava patetiche nostalgie fasciste e professava una totale adesione alla Dc tutta chiesa e atlantismo cieco.
I miei amici, quelli che mi avevano trascinato fin lì, invece erano tutti di famiglie comuniste, parecchio comuniste, e alla Festa dell’Unità erano di casa: s’incontravano le ragazze, si organizzavano partite di calcio, si mangiava bene con poco. Insomma, in una città della Toscana rossa come Piombino, la Festa era un posto da non mancare, soprattutto di sera, nell’estate afosa di scirocco e lunghi giri in Ciao, ma senza un calendario-eventi perché ancora non si usava.
La Festa dell’Unità era l’Evento, e se a qualcuno non garbava, pazienza.
Quella prima esperienza fu per me illuminante. Vidi il sindaco della città che serviva gran piatti di spaghetti, il mio vicino di casa che sparecchiava i tavoloni appena liberati da decine di chiassosi commensali, il mio professore di lettere del liceo che allo stand della Cultura vendeva libri.
Per qualche minuto ascoltai il dibattito sul divorzio, che il referendum aveva sancito appena un anno prima, e mi ritrovai a sorprendermi su quante donne fossero presenti tra il pubblico che interveniva per alzata di mano “la parola alla compagna Mariella…”.
In uno spazio più in là, degli animatori giocavano con i bambini, i genitori li incoraggiavano, e tutti sembravano divertirsi un mondo. Pensai che più che mangiarli, i bambini, ai comunisti interessasse affascinarli con il loro modo di organizzare le cose di tutti i giorni, di rappresentarle e di raccontarle. Si poteva non essere d’accordo, però bisognava riconoscere il metodo, lo sforzo e la passione nel fare le cose.
Negli anni successivi ebbi con i comunisti rapporti altalenanti. Come tanti miei compagni di liceo ero sedotto da Marx ed Engels, dalle grandi città ci arrivavano gli echi del terrorismo di destra e di sinistra, ascoltavamo Berlinguer e lo giudicavamo un moderato che pensava al compromesso storico con la Dc. Il sequestro Moro coincise con la fine del liceo e all’università di Pisa tutto rischiò di diventare più netto, radicale: o di qua o di là. Mi salvò il giornalismo: cominciare a lavorare in redazione significò entrare in una dimensione adulta e molto pratica: cronaca nera, cronaca bianca, cronache sportive. Un cronista doveva raccontare ciò che vedeva: la filosofia politica era un lusso non sostenibile.
Continuai ad affacciarmi alla Festa dell’Unità e dai 25 anni in poi lo feci in varie parti d’Italia perché la mia professione di giornalista mi portò in luoghi molto diversi tra loro, dal nord al sud del Paese.
Nella “liturgia” (ex) comunista c’erano delle costanti che non venivano mai meno: la preservazione della memoria, la difesa dei diritti fondamentali, il rifiuto della guerra e di ogni forma di imperialismo, la voglia di cambiamento. Poteva sembrare un copione ripetitivo, si poteva essere d’accordo o meno, però tutto questo si fondava su dei valori che rappresentavano un’equazione identitaria molto chiara. Inequivocabile: “La sinistra siamo noi”.
Intanto il Pci aveva mutato nome e simbolo, erano subentrati nuovi leader, era caduto il Muro di Berlino: insomma, era cambiato il mondo. Però i comunisti italiani (o come si chiamavano dopo la Bolognina) non avevano cambiato il loro modo di stare sul territorio e di rappresentare comunque un punto di riferimento: ogni sezione era una vedetta territoriale, osservatorio critico e presidio di legalità, soprattutto in regioni dove l’affarismo e le clientele erano la regola.
Per chi faceva il mio mestiere, con inchieste e cronache serie, il confronto con i dirigenti (ex) comunisti locali era d’obbligo. Inevitabile. Comunque la si pensasse.
E se accadeva che uno di loro si rivolgesse a me usando il termine “compagno”, io con molta tranquillità gli spiegavo che non ero “compagno” ma apprezzavo quello che stavano facendo. La reazione era inevitabilmente la stessa: “Non lo sei ancora, compagno, ma lo diventerai”. Di solito finiva con una risata e una scommessa. Che ho sempre vinto io.
Così fui abbastanza sorpreso quando nell’estate del 1994, mentre dirigevo La Provincia Pavese, quotidiano di Pavia del Gruppo Espresso-Repubblica, i dirigenti del partito mi invitarono alla Festa dell’Unità di Piombino per intervistare Massimo D’Alema.
Già, niente di meno che il nuovo segretario dei Ds appena subentrato ad Achille Occhetto. Era la sua prima uscita pubblica.
In una ventosissima serata al Castello, insieme all’allora direttore del Tirreno Ennio Simeone, demmo vita a un serrato confronto con il neo segretario, più ruvido e caustico del solito, tanto che a fine incontro pensai che con quell’intervista avessi segnato la fine dei miei buoni rapporti con i “compagni”.
Mi sbagliavo, e di grosso. Pochi giorni dopo l’allora segretario di zona Stelio Montomoli e il parlamentare Enzo Polidori mi proposero di entrare nella lista dei candidati per fare il sindaco di Piombino.
L’idea – mi spiegarono – era stata proprio di D’Alema. Avevo 34 anni e ancora molto da fare nel mondo che amavo, quello dell’editoria, così dopo un paio di incontri trovai il modo di declinare l’offerta, che però mi lasciò dentro una sensazione molto forte e molto simile a quella prima volta che mi ero affacciato a una Festa dell’Unità.
Ma stavolta a quella sensazione ero in grado di dare un nome e un’identità: stima. Che significava apprezzamento, considerazione, rispetto.
Sentimenti che provai a sistemare narrativamente quando diversi anni dopo – era il 2006 – con Baldini&Castoldi pubblicai “Alla larga dei comunisti”.
Era un bildungsroman, un romanzo di formazione, e per la prima volta mi rendevo conto di quanto “quella gente” – come la chiamava mia madre – avesse pesato positivamente nella mia crescita e nella mia maturazione.
La storia dei fratelli Semplici e della loro polisportiva che toglieva i ragazzini dalla strada non era solo la vicenda (romanzata) della Polisportiva Salivoli dei fratelli Allori, ma più ambiziosamente la rappresentazione di un lavoro umile, onesto, silenzioso ma pieno di passione, che era poi la cifra più autentica di “quella gente”.
Quando nel 2020, stavolta come editore, pubblicai il libro di Matteo Pucciarelli (con Sara Fabrizi) “Comunisti d’Italia. Cento patrioti rossi che hanno costruito la democrazia”, fui raggiunto da commenti di ogni genere, in gran parte molto critici, del tipo “come si fa a definire patrioti dei comunisti?”.
A parte una normale riflessione sulla malafede e sull’ignoranza abissale contenute in osservazioni del genere, pensai a quel giorno in cui mi ero fatto trascinare per la prima volta alla Festa dell’Unità.
E a quanto avrei dovuto scoprire, e capire, di quel mondo di cui non facevo parte ma che mi avrebbe comunque accompagnato per molti anni a venire.
E pensai a mia madre, che dopo aver finalmente letto “Alla larga dai comunisti”, mi confidò di aver votato Partito democratico, ma non perché c’era Prodi, bensì perché aveva finalmente capito chi erano stati, e chi erano, i comunisti italiani (e i loro eredi).
Ecco, è ripensando a tutto questo, che una di queste sere vorrei rimettere piede in una Festa dell’Unità: per capire se c’è ancora speranza di rivedere quello spirito e quella passione.
Per capire se, al di là delle facili ironie e strumentalizzazioni, c’è ancora un Paese che conserva la memoria e la voglia di un futuro diverso da quello che ci sta preparando la classe politica che ci governa.








