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La legge Salva-Milano e i confini tra lecito e illecito | L’analisi di Serena Sileoni

Milano – commenta sulla Stampa Serena Sileoni – è l’unica città in Italia che ha un aspetto diverso da come lo ricordavamo.

Anche questo ha contribuito a ribadirne negli ultimi anni la qualifica di capitale morale d’Italia.

È la città più dinamica, il simbolo dell’innovazione urbanistica in un Paese museo, la prova che sia possibile una visione politica condivisa da diversi governi in successione (in questo caso locali).

Un progetto del genere ha un costo, ovviamente.

Non solo economico, ma di responsabilità individuali, amministrative, politiche.

L’indagine della Procura mette in luce la fatica di un sistema amministrativo e imprenditoriale che si relaziona a un contesto di leggi e procedure ostile al fare.

Lo stesso Comune di Milano si era accorto di quanto sia scivoloso in Italia il crinale tra la semplificazione e la violazione di legge, tra l’investimento e la speculazione, tra gli uomini di affari e i faccendieri, tanto da aver chiesto una copertura legislativa al Parlamento non per modificare le regole, ma solo per vedere scritto nero su bianco che il modo in cui le interpretava fosse corretto.

Proprio le sorti della legge Salva-Milano aiutano a capire quanto la questione abbia riflessi oltre il confine tra lecito e illecito.

La legge – come ricordava ieri Alessandro Barbano – era stata condivisa da giuristi e tecnici e venne abbandonata in Senato, dopo l’approvazione alla Camera, da una classe politica capace di abbaiare ai problemi del Paese senza mai morderli sul serio.

Non c’è giorno in cui non si parli, da destra a sinistra, della necessità di semplificare, sburocratizzare, attrarre investimenti, risorse, idee per il futuro.

Quando da qualche parte emerge una di quelle idee, tutte quelle necessità diventano nodi al pettine che nessuno ha la forza politica di tagliare, lasciando che siano le amministrazioni a districarli, nel guado di incertezze, rischi e forse anche tentazioni.

Postilla: oltre al merito, c’è una questione eternamente preoccupante ed è l’uso della custodia cautelare in carcere per rischio di inquinamento probatorio.

Se questo è il rischio, in un Paese civile non sarebbero sufficienti i domiciliari con le corredate prescrizioni di divieto di comunicazioni e controlli sugli spostamenti e le visite?

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