C’è stato un tempo in cui lavorare in un quotidiano locale equivaleva alla possibilità di incidere sulla vita della comunità di cui si raccontavano i fatti. Il notiziario del giornale era rilevante per quella comunità, quindi chi lo realizzava aveva un ruolo altrettanto importante.
Questo, oltre alle necessarie capacità giornalistiche, comportava quel senso di responsabilità che andava oltre le proprie convinzioni, incluse le opinioni politiche. Obiettività (la massima possibile) e ascolto di tutte le campane erano condizioni fondamentali per svolgere adeguatamente la propria professione.
Dunque, ci si potrebbe chiedere, tutti i giornali locali e tutti i giornalisti erano un fulgido esempio di obiettività? Ovviamente no, tutt’altro. Però in quel tempo di cui parlo (diciamo dalla fine degli anni Settanta ai primi anni Duemila) i giornali erano davvero il cane da guardia che vigilava sulle comunità locali: magari con degli eccessi, magari con errori di valutazione e con dei personalismi spesso discutibili, però – in definitiva – il giornale era una voce fondamentale per la comunità.
La cronaca non era il semplice resoconto dei fatti ma molto di più. Era – per esempio – sguardo critico e severo sulle decisioni degli amministratori pubblici, dei politici eletti e di quelli cresciuti nei meandri, spesso non proprio trasparenti, dei partiti e dei sindacati. Era uno strumento pubblico di verifica rispetto a quanto veniva annunciato, promesso e spesso mai realizzato o realizzato male. Era, infine, luogo di confronto delle idee e delle diverse posizioni politiche in un ambito dove vigevano regole molto precise, a cominciare dal divieto di insultare o aggredire l’interlocutore.
E poi che cosa è successo?
La rivoluzione digitale, con l’esplosione di Internet e tutto quello che conosciamo, ha progressivamente eroso la forza dei giornali locali, che hanno perso lettori, pubblicità e hanno visto crollare le vendite. I giornali sono diventati un prodotto maturo, che è un modo elegante per indicarne la fase di decadenza.
Colpa dei social, si sente dire spesso. Vero, almeno in parte, ma qui non ci interessa soffermarci sul ruolo più o meno nefasto dei vari social network e su tutte le conseguenze che conosciamo. Sappiamo che i social sono un universo pieno di contraddizioni: tutti li usiamo ma poi ne descriviamo puntualmente i limiti, le aberrazioni e i pericoli.
Il punto però è un altro. La rivoluzione digitale in realtà ha scoperchiato e presentato in tutta la sua crudezza una domanda fondamentale: chi sono oggi, e chi erano ieri, gli editori?
Collegati a questa domanda sorgono altri interrogativi piuttosto importanti: perché oggi un imprenditore dovrebbe fare l’editore di giornali locali? Qual è il suo tornaconto? Ma, soprattutto, qual è il suo progetto in un contesto socio-economico caotico, in costante evoluzione, dove la tecnologia determina di continuo nuove abitudini degli utenti (cioè di tutti noi) con conseguenze fino a pochi anni fa inimmaginabili sulla vita di tutti i giorni e perfino sui passaggi generazionali?
Senza attardarsi in noiosi riferimenti storici, è giusto ricordare che nella capillare ramificazione dell’editoria locale sul territorio italiano, ben pochi erano gli editori cosiddetti puri, quelli cioè che non esercitavano anche altre attività imprenditoriali, come per esempio l’edilizia, i trasporti, le banche, la sanità o altro.
La stragrande maggioranza era formata da imprenditori impuri (molto impuri) che nell’editoria vedevano un’attività sinergica con gli altri asset. Questo era ovviamente un limite, la gestione risentiva di pressioni e interessi non sempre cristallini, ma nelle redazioni in fin dei conti c’erano anche professionisti che, proprio per quel senso di responsabilità di cui sopra, sentivano di avere una missione e ci credevano: raccontare i fatti, analizzare le azioni dei personaggi pubblici, esercitare il diritto di critica.
Etica, passione e deontologia. Spesso anche in contrasto con l’orientamento della proprietà della testata, ovvero l’editore.
Pubblicità e vendite in edicola erano le voci principali dei ricavi. Personale dipendente e costi di stampa erano le voci principali dei costi. Finché il modello economico ha retto, magari aiutato da un po’ di contributi pubblici, molti giornali locali hanno svolto egregiamente la loro funzione. Ma quando pubblicità e vendite sono calate, e poi precipitate, il quadro è cambiato repentinamente.
Sul piano puramente economico possedere un giornale non era più un’attività imprenditoriale conveniente. Restava l’altro piano: quello della sinergia (leggi anche commistione) con gli affari e la politica.
E qui arriva la prima risposta alla domanda: chi erano ieri, e chi sono oggi, gli editori?
Semplice: non erano editori (la maggior parte) e non lo sono oggi. Sono imprenditori che usano le loro testate per altri obiettivi, ma non hanno alcun interesse verso quel ruolo da cane da guardia tanto prezioso per la comunità.
Semmai cane ringhioso al guinzaglio, da esibire e aizzare quando serve, tipo rottweiler pronto ad aggredire laddove se ne presenti la necessità. Se gli editori fossero stati davvero editori, avrebbero affrontato la rivoluzione digitale come hanno fatto altri settori industriali chiamati a fronteggiare il cambiamento: ricerca e sviluppo, ovvero investire in nuovi modelli, nuove professionalità, nuovi prodotti multimediali.
Sperimentare nuove strade da affiancare a quella tradizionale, sempre più stretta e accidentata. Nel mondo c’è chi l’ha fatto e c’è pure riuscito.
Invece in Italia questo è avvenuto in minima parte, perché gli editori hanno privilegiato altri calcoli: tagliare tutto il possibile e al tempo stesso sfruttare il proprio status per continuare ad accreditarsi presso una classe politica che ancora assegna ai quotidiani locali un peso che oggettivamente non hanno più da tempo.
In questi anni, molte testate sono passate di mano e non è stato un passaggio indolore, perché chi è subentrato non è arrivato con un vero progetto imprenditoriale ma ha guardato prevalentemente agli interessi collaterali: collegamenti con il potere politico, costruzione di relazioni utili, sviluppo di attività che con l’editoria hanno poco a che fare.
Quello è il vero tornaconto, giusto per rispondere a un’altra delle domande di cui sopra.
Il risultato finale di tutto questo è che molte comunità locali oggi rischiano di non avere più dei giornali locali degni di questo nome: il cane da guardia non c’è più.
Questo il Potere lo sa e di sicuro non se ne duole: meno fastidi, meno ficcanaso, meno rotture.
E se nelle redazioni, ormai decimate, alcuni giornalisti comunque ci provano, sanno di lavorare in un contesto di crisi dove gli spazi si riducono ogni giorno di più. Dove chi dovrebbe impegnarsi con loro per individuare nuove strade, in realtà si trova in tutt’altre faccende affaccendato.
Ma per la nostra società e per i suoi cittadini (tutti noi) la progressiva perdita di rilevanza delle testate locali è una pessima notizia: sia per chi leggeva i giornali, sia per chi non li ha mai letti e forse ne ignora perfino l’esistenza.
Viene a mancare un contrappeso fondamentale verso i poteri dominanti (politico, economico-finanziario, lobbistico), i quali usano disinvoltamente i nuovi strumenti digitali, sempre più pervasivi e aggressivi, nella convinzione che più follower e più like sia quanto serve davvero.
E dal loro punto di vista, è pure difficile dargli torto.








