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Ecco il sesto referendum | L’analisi di Michele Ainis

Un quesito sulla cittadinanza, quattro quesiti sul lavoro. Ma c’è un sesto referendum – osserva Michele Ainis su Repubblica – che reclama il nostro voto, benché non sia stampato sulla scheda.

È il referendum sul referendum, sulla sopravvivenza di questo strumento di democrazia diretta.

Dopo trenta consultazioni andate a vuoto, stavolta c’è proprio il rischio di celebrarne i funerali.

Sicché, al di là del merito dei quesiti, sussiste una ragione più grande, più potente, per correre alle urne.

È la democrazia, questa ragione.

È la possibilità di praticarla, d’esercitare in concreto la sovranità che i costituenti attribuirono agli elettori, non agli eletti.

Consegnandoci così una doppia scheda: la prima per scegliere i governanti che decideranno in nostro nome; la seconda per decidere in prima persona, senza deleghe, senza intermediari.

Con un referendum popolare, per l’appunto.

Come quello che nel 1946 battezzò la Repubblica italiana, che nel 1993 introdusse la sua seconda stagione.

Due schede, come le due gambe che ci portano in giro per il mondo.

Se ce ne rimane una soltanto diventiamo zoppi, così come può azzopparsi la democrazia italiana.

La malattia del referendum dipende dalla sua regola cogente: il quorum.

Dice l’articolo 75 della Costituzione: il referendum abrogativo è valido “se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto”.

Perché i costituenti adottarono questo sbarramento?

In parte per scongiurare il pericolo che una legge, magari approvata a larga maggioranza in Parlamento, fosse poi bocciata da una sparuta minoranza d’elettori.

In parte per misurare la serietà della proposta, il suo rapporto con tematiche d’interesse davvero generale.

Se tu indici un referendum per abrogare la legge sui prosciutti (in Italia abbiamo pure quella: n. 401 del 1985), io resto a casa, ho di meglio da fare.

Ed ecco perché il referendum costituzionale non ha quorum: in quel caso la consultazione popolare è sempre rilevante, dato che si tratta d’emendare la Costituzione.

Sennonché il quorum, nel corso degli ultimi decenni, si è trasformato in una diga, in un muro di cemento che risulta pressoché impossibile scalare.

Chi ha a cuore la democrazia dei referendum potrà proporre di correggerne le regole, abbassando il quorum e magari innalzando il numero di firme necessarie per richiederli.

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