I dazi gravano pesantemente sul comparto delle fonderie, un settore storicamente molto sviluppato nelle regioni del Nord Italia, dove ha sede circa l’80% delle circa 900 fonderie italiane.
Lo ricorda Assofond, l’associazione imprenditoriale che rappresenta le imprese italiane di fonderia: un comparto che impiega circa 23.000 addetti e genera un fatturato annuo di 7,6 miliardi di euro.
Particolarmente rilevante il caso della provincia di Brescia, considerata il “distretto” italiano delle fonderie: vi operano 165 aziende con circa 5.000 addetti e una produzione superiore alle 300.000 tonnellate di getti, pari a quasi un quinto dell’intera produzione nazionale.
Nel 2024 il settore ha registrato un giro d’affari complessivo di 6,6 miliardi di euro, in calo del -12,8% rispetto al 2023.
Le fonderie di metalli non ferrosi hanno contenuto le perdite meglio rispetto a quelle di metalli ferrosi (-9,2% contro -19,2%).
Complessivamente la produzione è diminuita del -12,3%, con circa 1,6 milioni di tonnellate prodotte, un dato di poco superiore al minimo storico toccato nel 2020.
Le fonderie di metalli ferrosi hanno registrato una flessione del -17,2%, producendo 855.988 tonnellate, pur mantenendo la quota maggioritaria in volume (circa il 52% del totale). Le fonderie di metalli non ferrosi hanno prodotto 777.461 tonnellate (-6,1%).
La propensione all’export del settore è aumentata sensibilmente negli ultimi anni, raggiungendo il 42% in volume e il 69% in valore. Questo trend si è accentuato dopo la crisi del 2008, quando il settore ha avviato un’intensa ristrutturazione.
Tra il 2010 e il 2018 le esportazioni del comparto hanno superato del +30% i volumi iniziali, una performance nettamente migliore rispetto alla media del settore manifatturiero (+12%).
Le fonderie italiane hanno così dimostrato un’elevata capacità di riallocare la produzione sui mercati esteri, con un’apertura sempre maggiore verso i Paesi extraeuropei.
Il settore è anche un protagonista chiave dell’economia circolare, grazie al ruolo cruciale che svolge nel riciclo dei rottami metallici.
L’attività di fusione, infatti, consente il riutilizzo di materiali di scarto per la produzione di nuovi manufatti, riducendo l’impatto ambientale legato all’estrazione e lavorazione del minerale.
I prodotti delle fonderie, siano essi ferrosi o non ferrosi, presentano cicli di vita molto lunghi e, a fine utilizzo, sono riciclabili al 100%.
In un Paese povero di materie prime come l’Italia, il riciclo consente di ottenere nuova materia impiegando solo una frazione dell’energia necessaria per la produzione primaria, contribuendo così alla decarbonizzazione dell’economia.
Il settore ha anche investito nella valorizzazione dei residui di lavorazione, perseguendo l’obiettivo “zero rifiuti”.
Tali materiali vengono reimpiegati come materie prime in settori come l’edilizia, l’ingegneria civile, i cementifici e le fornaci.
Nel 2019 il 21% degli investimenti complessivi delle fonderie italiane è stato destinato alla riduzione dell’impatto ambientale: una quota nettamente superiore rispetto a quella del settore manifatturiero nel suo complesso (1,4%) e del settore metallurgico in generale (3,5%).
Grazie a questi investimenti, è cresciuto l’impiego di materiali di recupero in tutti i tipi di forni fusori: nelle fonderie con forni elettrici, ad esempio, la percentuale di rottami utilizzati è passata dal 60% del 2003 al 74% del 2019.
Nello stesso periodo si è registrata una riduzione del -72% delle emissioni di polveri e del -30% nella produzione di rifiuti per tonnellata di getti prodotti.
Emblematico il caso delle terre esauste: tra il 2000 e il 2019 la loro produzione è calata del -43% e il 95% di quelle prodotte viene riutilizzato come materia prima.








