Nei giorni scorsi è entrata in vigore una misura molto importante per il peso finanziario, di aiuto alla imprenditoria nel Mezzogiorno: la decontribuzione parziale per tutti i dipendenti nel Mezzogiorno di imprese private. Si tratta di uno sconto coperto dallo Stato del 30% dei contributi pensionistici a carico dei datori di lavoro.
L’idea è quella di incentivare il lavoro al sud e, secondo il Ministro, compensare per i mancati investimenti infrastrutturali al sud dei decenni passati.
Che la spesa in conto capitale al sud sia stata insufficiente è certo.
A dire il vero la spesa in conto capitale e gli investimenti pubblici calano nell’intero paese a ritmi preoccupanti da quasi due decenni. La spesa al sud però è particolarmente bassa soprattutto, ma non solo, nelle amministrazioni decentrate.
La misura dura al momento 3 mesi, ma l’intenzione del governo è quella di estenderla per dieci anni (probabilmente con uno sconto decrescente fino al 2029).
Per capire di che stiamo parlando, ricordiamo che già oggi esiste una decontribuzione totale di fatto su tutte le nuove assunzioni aggiuntive nel Mezzogiorno, della durata di tre anni. La nuova misura attua invece la fiscalizzazione del 30% dei contributi di tutti i dipendenti privati già in servizio.
L’utilità di una misura va sempre valutata sulla sua presumibile efficacia nel superare i problemi che affronta e ovviamente sul suo costo.
Nei primi tre mesi la decontribuzione parziale potrebbe avere in teoria l’obiettivo di evitare licenziamenti di massa al termine delle salvaguardie attuali. Appare comunque abbastanza improbabile che uno sconto del 30% sulla contribuzione abbia un effetto sostanziale. Lo sconto contributivo in effetti è inferiore al 10% del salario complessivo.
Quanti datori di lavoro prenderebbero la decisione di non licenziare in una situazione di difficoltà per uno sconto del genere? Gli effetti di incentivo sono relativi.
Tuttavia qualche impresa che si trovi ad affrontare squilibri temporanei potrebbe reagire all’incentivo e mettere temporaneamente in stallo i licenziamenti fino alla fine dell’incentivo. Da questo punto di vista la misura potrebbe essere vista come un ammortizzatore temporaneo dell’uscita dalle misure drastiche, ma ormai troppo costose dei mesi precedenti.
Se la misura venisse invece estesa a dieci anni sarebbe il caso di riflettere attentamente se i presumibili vantaggi sarebbero compensati dai costi.
Escludendo che il Ministro quando ha parlato di compensazione per le minori infrastrutture pensasse letteralmente a un trasferimento compensativo secco per le imprese esistenti, la misura si giustifica solo se produce effetti strutturali proporzionali alla spesa che comporta.
Questa spesa purtroppo è ingente. Si tratta di 5 miliardi l’anno (a occupazione inalterata). Si tratta dell’ordine di spesa di alcuni dei più grossi provvedimenti delle scorse finanziarie. Solo per comparazione il reddito di cittadinanza ne costa 7 circa.
Quali effetti ci possiamo aspettare da un provvedimento del genere?
Calerebbe il costo del lavoro al sud in una misura non particolarmente elevata ma nemmeno irrilevante, e questo renderebbe più conveniente assumere lavoro piuttosto che investire in capitale. E’ molto improbabile che il provvedimento abbia effetti significativi in termini di assunzioni rispetto ai 5 miliardi che si spendono (sicuramente la decontribuzione sui nuovi assunti che costa molto di meno ha effetti maggiori ad esempio). Comunque anche se il provvedimento avesse un effetto al margine, esso aumenterebbe la domanda di lavoro.
Si assumerebbero più persone, il che naturalmente sarebbe positivo, ma presumibilmente lavoratori a produttività minore, corrispondente al più basso costo del lavoro.
Il Mezzogiorno si specializzerebbe in produzioni a sempre più basso valore aggiunto.
L’idea sottostante il provvedimento è che il problema sia il costo del lavoro.
Sicuramente l’Italia ha un cuneo fiscale molto elevato rispetto ai paesi più arretrati d’Europa, ma non tanto rispetto ai più avanzati.
Dobbiamo decidere se siamo nel gruppo di testa o se competiamo definitivamente con Romania e Ungheria. Se guardiamo ai fattori di svantaggio delle nostre imprese, e di quelle meridionali in particolare, come da esse rivelate ci accorgiamo che il fisco è più irritante per gli adempimenti e l’incertezza che per il peso in sé. Ma i veri problemi arrivano dal rapporto con le amministrazioni, dalla mancanza di investimenti pubblici, dai tempi (e l’imprevedibilità) della giustizia.
Personalmente non sono contrario all’uso di incentivi automatici.
In effetti esistono strumenti automatici per generare comportamenti ed effetti positivi, senza l’intermediazione della politica e della PA, e sono convinto che debbano essere usati al massimo. Ma la decontribuzione di per sé non incentiva azioni che hanno effetti positivi sull’economia del Mezzogiorno, come fa il credito d’imposta per gli investimenti industriali al Sud. Solo con investimenti e riqualificazione della forza lavoro cresceranno la produttività ed i salari. Questi infatti sono i veri problemi del Mezzogiorno. Misure che non facciano crescere la produttività media, anzi potrebbero farla calare, non servono.
Rilancio quindi una proposta che ho già fatto sulle colonne del Corriere del Mezzogiorno.
Qualora si volesse comunque perseguire la strategia dello sconto contributivo per i prossimi dieci anni, sarebbe almeno opportuno legarlo – in termini aggiuntivi al credito d’imposta – alla effettuazione di investimenti di qualunque genere, da impianti e macchinari ad attività di formazione per il personale e di digitalizzazione delle attività.
Sarebbe una soluzione sicuramente più complessa, che purtroppo aggraverebbe l’onere informativo a carico delle imprese.
Ma, rispetto alla decontribuzione per tutti, avrebbe notevoli vantaggi.
Si concederebbe il beneficio solo a chi reinveste i risparmi nella propria impresa.
Questo avrebbe il beneficio addizionale di evitare che le imprese aggiungano solo manodopera a basso costo. Il costo del finanziamento sarebbe molto più contenuto. Inoltre anche il costo politico di contrattare la misura a Bruxelles sarebbe inferiore: si rispetterebbe il principio comunitario che gli aiuti di Stato possono solo essere concessi a fronte di un investimento.
Questo governo ha finora dimostrato attenzione ai problemi del Mezzogiorno.
Certo non possiamo dare un giudizio sul Piano per il Sud, se non sulla carta, in quanto la sua attuazione è nello stadio preliminare e comunque in parte bloccata dall’emergenza sanitaria.
L’elemento fondamentale su cui giudicarlo sarà la capacità di far ripartire gli investimenti pubblici, ma anche su questo potremo dire solo purtroppo tra qualche tempo.
Ma la sua azione in continuità con il percorso intrapreso con i Decreti Mezzogiorno dell’allora Ministro De Vincenti (Credito d’imposta per investimenti al sud, potenziamento di ZES, Resto al Sud, Fondo Cresci al Sud) ha ripreso una strada positiva.
Questa misura invece va ponderata attentamente.
Nonostante le maggiori disponibilità attese dal Piano Next Generation EU ed eventualmente dal MES, siamo e restiamo un paese con un debito altissimo.
Dobbiamo finanziare iniziative che hanno effetti importanti e duraturi e ce ne sono.








