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La locomotiva europea in frenata, adesso spetta alla Germania fare i compiti a casa | L’analisi di Guido Salerno Aletta

Uno dopo l’altro, stanno venendo meno tutti i punti fermi su cui in tre decenni, a partire dal 1992, aveva costruito con determinazione il suo benessere, incurante dei pericoli cui andava incontro: dopo i rapporti con gli Usa, che nel tempo si erano andati sempre più increspando per aver abusato del successo delle proprie esportazioni, per non sostenere in modo adeguato gli oneri della difesa nell’ambito della Nato e per l’eccessiva dipendenza dal gas proveniente dalla Russia, le sanzioni irrogate a Mosca per punirla dell’invasione dell’Ucraina l’hanno improvvisamente privata di queste risorse preziose.

Dopo questo durissimo shock per la Germania, le cui conseguenze sono lungi dall’essersi esaurite avendo colpito al cuore la competitività della sua produzione ad alta intensità di energia per la forte concentrazione industriale nel settore metallurgico, chimico e manifatturiero, anche il suo potente settore automobilistico è entrato in crisi, mentre con la Cina è venuta meno quella sinergia nelle relazioni commerciali che sembrava definitivamente acquisita nel rimpiazzare dopo le violente tensioni finanziarie del biennio 2011-2012 quelle verso un’Europa boccheggiante per la perenne austerità fiscale impostale col Fiscal Compact.

In Cina, è terminato il ciclo di infrastrutturazione industriale e di realizzazione delle grandi opere pubbliche che aveva fatto da volano all’export tedesco.

Ogni scelta, portata all’eccesso, espone a rischi enormi: quando il contesto inevitabilmente muta, i nodi si fanno così stretti e le difficoltà tanto grandi che uscirne diventa pressoché impossibile.

Per la Germania è stato così, a partire dalla Riunificazione: la scommessa di tornare un Grande Paese dal punto di vista economico e soprattutto autonomo nelle scelte di politica estera, l’ha indotta a rinunciare ad ogni prudenza.

Ora si trova in una situazione di crisi che non è solo pesante sul piano economico, congiunturale o strutturale, ma che è divenuta esistenziale sia dal punto di vista delle relazioni geopolitiche che del modello di sviluppo: dopo che la Polonia l’ha soppiantata nel ruolo cruciale di Paese di frontiera, antemurale dell’Occidente nei confronti della Russia di Vladimir Putin che è tornata ad essere il nemico assoluto come ai tempi dell’Urss, anche il comparto automobilistico si sta avviando alla fine di un’era gloriosa di cui il Dieselgate, deflagrato non casualmente negli Usa, era stato una pericolosa avvisaglia.

Il recente annuncio della Volkswagen di procedere alla chiusura di ben tre dei suoi dieci stabilimenti localizzati tra Bassa Sassonia, Sassonia ed Assia, ad un taglio dei costi per 4 miliardi di euro con la riduzione del 10% degli stipendi, e al loro congelamento per il 2025 e il 2026, segna un punto di svolta per un comparto che per decenni è stato non solo un motivo di vanto nazionale, ma soprattutto il pilastro fondamentale di un sistema produttivo basato sulla manifattura meccanica e orientato alle esportazioni.

Nel 2019, prendendo come riferimento l’ultimo anno del periodo pre-Covid visto che successivamente si sono accavallate troppe variabili esogene, il peso dell’export sul pil tedesco era arrivato al 47,1%.

Praticamente, metà della produzione totale era destinata alle esportazioni.

Non solo: il valore aggiunto del settore automotive era stato pari al 20,6% del complesso dell’attività manifatturiera, dunque pari ad un quinto, mentre era arrivato al 9% in Spagna, al 6,1% in Italia ed al 5,6% in Francia.

Se tutta l’industria automobilistica europea sta rallentando più o meno violentemente a causa della scarsa domanda di vetture elettriche e della concorrenza sleale di quelle prodotte dalla Cina, i dazi decisi per evitare il dumping espongono a pesanti ritorsioni i produttori tedeschi che hanno realizzato impianti nel gigante asiatico.

Le difficoltà dell’industria automobilistica tedesca intaccano dunque lo zoccolo duro della aristocrazia operaia, la casta dei bramini risparmiati dalle riforme Hartz che nell’ultimo ventennio hanno puntato all’abbattimento del costo del lavoro nel settore dei servizi, precarizzandolo e riducendone il salario al minimo vitale in quanto attività non esposte alla concorrenza internazionale: 538 euro mensili sono oggi la retribuzione massima mensile, cui si aggiungono le fonti di assistenza comunale, come l’alloggio sociale e la tessera per l’autobus.

I mini-job hanno determinato la creazione di una nuova classe sociale che non ha nessuna speranza di mobilità verso l’alto, composta di paria.

Questa segmentazione del mercato del lavoro ha già determinato la profonda divisione politica che ora caratterizza la Germania: a giugno scorso, nelle elezioni per il Parlamento Europeo, AfD si è qualificata in tutti i land più poveri, quelli orientali dell’ex-Ddr, come il primo partito politico.

È un varco che può approfondirsi: se la crisi del comparto automobilistico si avvita drammaticamente, all’insuccesso dell’Spd che è al governo, ed alla sparizione dei Verdi, si contrappone una destra nazionalista e xenofoba rispetto a cui la tenuta della Cdu potrebbe non rappresentare più un argine sufficiente.

Fu la crisi economica indotta dalle misure di estremo rigore del cancelliere Heinrich Brüning a determinare la crescita a milioni dei disoccupati che andarono ad ingrossare le fila del nascente Nsp: ed è la politica di perenne rigore fiscale che ha impedito in questi anni una crescita interna fondata su una politica di consistenti investimenti pubblici infrastrutturali.

Suo malgrado, come afflitta da un imperscrutabile destino, sembra che stavolta sia la stessa Germania ad aver determinato le cause della deindustrializzazione cui era stata condannata dal Piano Morghentau nel secondo Dopoguerra: senza più l’energia russa a prezzi convenienti, e senza i mercati orientali di sbocco per le esportazioni tradizionali competitive nel settore chimico, meccanico ed automobilistico, si dilanierà inutilmente.

La nuova Cortina di ferro è stata eretta più ad Est e corre dal Mar Baltico al Mar Nero, arrivando fino al Golfo Persico per isolare anche l’Iran: è nell’inutilità geopolitica della Germania, la sua fine.

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