Ha fatto molto discutere – commenta su Italia Oggi Luigi Curini – la dichiarazione del ministro dell’istruzione Giuseppe Valditara sull’opportunità di limitare il numero degli studenti stranieri nelle classi italiane al fine di migliorare l’integrazione di chi italiano non è.
Al di là della polemica spicciola, il tema sollevato dal ministro è assai serio.
D’altra parte, in Nord America e in Europa il numero di migranti è aumentato di circa il 50% negli ultimi 20 anni, un trend che le previsioni non danno in decrescita.
Sostenere un elevato livello di coesione sociale in questo contesto di sempre maggiore diversità richiede allora essere in grado di sviluppare fiducia e comprensione al di là delle rispettive diversità religiose ed etniche.
La scuola pubblica rappresenta l’istituzione chiave a questo riguardo.
Rispetto però ad una visione molto semplicistica che sottolinea come la semplice copresenza di diversi gruppi etnici, e la loro conseguente interazione, promuova di per sé integrazione, recenti studi hanno mostrato che gli esiti attesi sono in realtà meno lineari.
Uno studio appena uscito sul contesto tedesco è da questo punto di vista particolarmente interessante.
Analizzando 60 scuole secondarie tedesche, gli studiosi riscontrano come un ruolo cruciale nella creazione di un contesto foriero di integrazione e fiducia venga svolto da due fattori.
Ovvero da quanto i gruppi che interagiscono in classe sono culturalmente distanti tra di loro, e, seppur in modo meno scontato rispetto a quanto sottolineato da Valditara, proprio dalla loro relativa dimensione.
In particolare, lo scenario peggiore in termine di integrazione e fiducia reciproca si registra in quei contesti in cui una leggera maggioranza di autoctoni convive con una sostanziale minoranza di immigrati musulmani, specie se rapportato a quello che accade in contesti in cui i nativi sono una forte maggioranza, oppure una maggioranza contenuta che però interagisce con studenti immigrati con una cultura non così distante dalla propria.
Un esito negativo, il primo, che è il prodotto dello sviluppo di stereotipi che l’interazione quotidiana, invece che stemperare, finisce per rafforzare.
Una conclusione scoraggiante che invita però anche a pensare a misure per contrastarla, invece che semplicemente negarne in partenza la possibilità, come accaduto in questi giorni.








