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Who can it be now? Brevi spunti di analisi e riflessione a margine della “Covid Experience”

La presente nota è frutto di una riflessione “figlia” principalmente di due “genitori”. Da un lato l’Editoriale su Mecosan di Elio Borgonovi[1] e dall’altro l’intervento introduttivo di Sabina Nuti al recente Meeting di Rimini[2].

Con prospettive differenti entrambi enfatizzano l’assioma di base ovvero la centralità della Salute e dei suoi sistemi di tutela. Tanto in sé e per i suoi riflessi economici diretti e indiretti. Per utilizzare una felice espressione della Prof.ssa Nuti il Sistema Sanitario Nazionale Universalistico CONTA. Ed è questo l’elemento imprescindibile, l’insegnamento della “Covid Experience”; altrettanto certo è che il sistema si è trovato impreparato, con effetti dirompenti certamente in termini organizzativi ed economici ma soprattutto in relazione al valore intrinseco di ciascuna vita umana.

E quindi? Che fare? Cosa abbiamo imparato? Come fare per giungere preparati la prossima volta? Il tema non attiene -se non quale derivata- né il metodo né il merito, ma concerne i “valori profondi che muovono l’agire umano” e le conseguenti scale di priorità.

Certo, si può “tranquillamente” attendere che le acque tornino calme, come se nulla fosse accaduto, aspettando semplicemente che il tempo consenta un apparente rientro nella normalità, al “si è sempre fatto così” e quindi – se si vuole – al perdurare di certe rendite di posizione. Non può negarsi che la “normalità” aveva in ogni caso consentito lo strutturarsi di un sistema che – apparentemente – aveva ed ha una sua logica interna ed aveva permesso, sempre in un’ottica prima facie e/o empatica, il soddisfacimento dei bisogni “di salute” della popolazione. La pandemia ha tuttavia evidenziato da un lato i limiti di un’efficienza senza margini di sicurezza e dall’altro quelli (limiti) di una visione Ospedalo-centrica, con privilegio assoluto delle condizioni di acuzie. Tanto in spregio delle funzioni di prevenzione, a quelle territoriali e/o comunque, per certi versi, non in assonanza con le caratteristiche demografiche. Lo stesso sistema di finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale/Regionale spingeva in tal senso.

La strada più comoda è quindi quella dell’inazione, ovvero della restaurazione purtroppo forse senza la visione prospettica e d’insieme di Talleyrand e Metternich. Una scelta di questo tipo però è allo stesso tempo inattuale e rischiosa. Pur nella consapevolezza del ruolo fondamentale dei temi di tipo economico e sociale, ad essi non può acriticamente essere lasciato il ruolo di guida delle scelte.

Conseguenziale a tanto è che il tema in esame non attiene (ovvero attiene solo in maniera parziale) alla necessità di maggiori risorse. Ricondurre causalmente quanto verificatosi a tagli più o meno lineari che le riforme succedutesi nel tempo hanno prodotto, condurrebbe allo stesso errore “filosofico” di base, alla visione prevalentemente economicistica del sistema.

Che le risorse siano insufficienti è un dato di fatto inconfutabile, al netto di approfondite analisi di benchmark, ma tanto non può ritenersi sufficiente. La realtà è che dobbiamo pensare ad una sorta di reingegnerizzazione del sistema e per fare questo quel che deve cambiare è il sistema dei valori in gioco e/o – come si è detto – la loro scala di priorità.

Di fatto bisogna pensare ad un nuovo “patto sociale”, frutto della consapevolezza di tutti ed in primis dei cittadini.

Se così è si è di fronte ad una funzione esclusivamente politica, nella accezione migliore del termine. Il tecnico, lo scienziato, l’esperto sono sicuramente necessari nella rilevazione delle evidenze e nella loro valutazione/interpretazione, ma la ponderazione e la sintesi dovranno essere lasciate alla politica, anche per evitare facili alibi.

Si tratta quindi di fornire elementi di valutazione/riflessione e di suggerire possibili soluzioni. Per tale impegno si partirà da due assiomi, ancorché di essi, con salto logico ossimorico, si cercherà di dare interpretazione.

Il primo è il “fallimento” (ma forse sarebbe più corretto dire l’incompiutezza) del sistema dei L.E.A. (Livelli Essenziali di Assistenza). Si badi bene che non si vuole contestarne la “filosofia” (pressoché dovuta, specie dopo la riforma del Titolo V della Costituzione), quanto piuttosto la sua applicazione. Si è assistito nel tempo ad un loro progressivo ampliamento, all’introduzione di tecniche e strumenti talora lontani dal concetto di malattia/patologia e quindi di cura. Non è questa la sede per una interpretazione ermeneutica del concetto di indigenza/bisogno tutelato dall’art. 32 della Costituzione, ma quel che è certo è se ne ampliamo la dimensione (ed è questa la traduzione applicativa dei L.E.A.), gioco forza – in un sistema di risorse “finite” (e per questa analisi non è rilevante la loro dimensione) – si produrrà l’effetto del “meno a tutti”. Deriva questa che contra sia con il concetto di eccellenza, di qualità e di sicurezza. È una sorta di infingimento, improntato prevalentemente da logiche “social”, senza alla base un contenuto comparativo. Senza contare che dalla logica proattiva dei L.E.A., essi – di fatto – sono stati utilizzati come sistema di verifica e controllo. Si è assistito cioè ad un ribaltamento della loro funzione: se infatti l’idea che li informava e li informa era a garanzia di equità, l’averli utilizzati in maniera impropria ha prodotto l’acuirsi delle diseguaglianze tra sistemi, producendo l’effetto – assolutamente perverso – dei piani di rientro. Molto si è scritto e si è detto di essi, ma quel che è certo è che, nei fatti, si sono rivelati produttivi di un meccanismo “Robin Hood inverso”. Inevitabilmente, a livello periferico, esso si è tradotto nella logica amministrativo-burocratica dell’adempimento/inadempimento, snaturandone ulteriormente la natura e svuotandone il significato, se si vuole solidaristico, che era alla base.

Di fatto se n’è fatto, in maniera assolutamente impropria, uno strumento “economico-finanziario”: l’emergenza pandemica non ha fatto altro che certificarne, in questa ottica, l’assoluta “inappropriatezza”.

Il secondo assioma è l’inadeguatezza – assoluta e relativa alle specifiche contingenze – del D.M. 70/2015. Le ragioni di tanto sono, in parte, sovrapponibili a quelle già espresse per i L.E.A., ma almeno per esso la logica era chiara fin dall’inizio.

È evidente infatti che esso era (è) informato da logiche economicistico-finanziarie, che fosse costruito per combattere “sprechi ed inefficienze”: in realtà per razionalizzare razionando. Il che va anche bene, se si vuole e se se ne accettano a priori e consapevolmente le conseguenze e gli effetti, in tempi di pace ma non in guerra ovvero in previsione di essa. Ed essa (guerra) seppur genericamente era assolutamente prevedibile e per la grandissima parte prevenibile.

Anch’esso ha prodotto la logica dell’adempimento/inadempimento, il più spesso costituendo l’alibi perfetto per scelte impopolari, alle volte – ma in questo caso è impossibile generalizzare senza entrare nel merito – giustificanti opzioni anche contrarie al comune buon senso. Certo, per certi versi, esso ha anche prodotto, non si sa quanto in maniera voluta, effetti creativi di rimodulazione/riconversione di strutture e personale, purtroppo non sempre in un’ottica di piena efficacia e/o di acclarata esigenza, motivate com’erano da logiche ed esigenze localistiche.

Il “combinato disposto” dei due assiomi ha prodotto gli effetti sotto gli occhi di tutti, di apparente impotenza nelle prime fasi della emergenza e di risposte caotiche ed alle volte tra loro confliggenti subito dopo. Successivamente, come suol dirsi e per fortuna, non senza l’ausilio di tecniche e strumenti degli inizi del secolo scorso (distanziamento personale, preferibile al discutibile termine di “sociale”) che nulla hanno a che vedere con la moderna medicina di “precisione”, la natura “ha fatto il suo corso”.

Se così è la risposta, il “cambiamento” non deve tradursi ipso facto nell’abbandono della strada tracciata. Per chiarezza espositiva, se è vero che il sistema L.E.A./D.M. 70 ha dimostrato tutti i suoi limiti, sarebbe velleitario, controproducente, insufficiente ed iniquo dire “abbiamo scherzato”, ovvero, con espressione forse gergale ma efficace, “buttare il bambino con l’acqua sporca”. Tanto si tradurrebbe nella certificazione del disordine al posto dell’ordine. E di tutto possiamo avere necessità tranne che di questo.

Si tratta invece di rimodellarne le potenzialità, se si vuole di riportarli alle loro funzioni originarie ed inopinatamente tradite. Da un lato i L.E.A. devono essere il frame di riferimento, la cornice di principi all’interno della quale costruire il sistema affinché – quale che sia la latitudine e chiosando Aristotele – gli eguali siano trattati in maniera eguale. Tanto ben può essere applicato attraverso una rivisitazione dei contenuti che – fermo restando il sistema di organizzazione sul quale si fonda il nostro S.S.N. – consente una modulazione in ragione delle specifiche caratteristiche di ciascun S.S.R.

Altrettanto può dirsi per il D.M. 70. I vincoli – alcuni sacrosanti – che esso ha posto devono essere declinati nel rispetto delle caratteristiche epidemiologiche e socio-sanitario-economiche specifiche. Non si può, sotto il profilo logico ancor prima che normativo, da un lato sancire la autonomia regionale e dall’altro porre paletti che rendano i sistemi l’uno sovrapponibile all’altro, magari mutuando modelli nei quali la componente di spesa “privata” è infinitamente maggiore rispetto a quella consentita laddove la capacità di spesa del singolo semplicemente non esiste.

Non è il caso di richiamare la parabola del figliol prodigo, ma lo stesso lessico finora utilizzato, la differenziazione tra regioni virtuose e non virtuose è per certi versi aberrante. Ci si dimentica che nelle istituzioni/organizzazioni (e tanto più i sistemi di tutela della salute) l’attività è fatta di persone, con persone e soprattutto per persone.

Ancora una volta è il paradigma a dover cambiare richiamandosi in toto i contenuti dell’art. 2 della Costituzione sia per quanto concerne i diritti inviolabili dell’uomo, sia per quanto concerne i “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

Si tratta quindi di ripensare solo parzialmente il modello, di applicare un “business plan” che da un lato sia garanzia di equità, prima ancora che di efficienza, e dall’altro di rispettare le caratteristiche di ciascuna singola realtà.

Quali quindi le direttrici da seguire? Ancora una volta – e sempre a volerlo – ci soccorre l’insegnamento pandemico.

Al netto di ritardi, omissioni, assenze, di diatribe virologico-epidemiologiche alle volte stucchevoli quel che è stato il fil rouge sin dall’inizio e che ancora oggi perdura è l’assenza di sicurezza per i pazienti, per gli operatori, di sistema.

Eppure, se non nello specifico attesa la “novità” COVID, non si tratta di temi ignoti, non già approfonditi sia in termini dottrinari che applicativi. Ma la realtà dei fatti è che ci siamo trovati impreparati. Molte potranno essere le ragioni di tanto, dall’assenza di sinergie tra gli attori ad una visione a compartimenti stagni fino ad arrivare alla logica – già richiamata – dell’adempimento/inadempimento. Si approfondisce la tematica, si studia la bibliografia di riferimento, si sviluppano percorsi e procedure, al solo fine non di darne concreta attuazione anche sul piano formativo o di simulazione, ma per corrispondere esclusivamente a quesiti Ministeriali ovvero – più in generale – per avere la “bollinatura” di corrispondenza.

È la logica perversa della quale si è detto, figlia di una visione prevalentemente formale della mission del sistema.

Se tanto non può essere, se è vero che le crisi devono essere vissute (anche) come mere opportunità, ebbene la risposta non può che individuarsi nella Sanità Pubblica.

Ancora una volta evitiamo fraintendimenti. Il riferimento non è alla “gestione” pubblica, alla sterile contrapposizione tra efficientismo privato e garanzia pubblica, ma al coacervo di funzioni di Igiene, Medicina del Lavoro, Medicina Legale/Gestione del Rischio Clinico.

È stato quello che (con le sempre dovute eccezioni) è mancato ed è quello, nei termini che si espliciteranno, sul quale si deve – con urgenza – intervenire. Sempre al fine di evitare fraintendimenti non si tratta (solo?) di risorse, né tantomeno di affidarsi alle capacità taumaturgiche di quello piuttosto che di quell’altro esperto o della tal o talaltra Task force. Tanto va bene per l’emergenza, quando l’evento è veramente improvviso, imprevedibile ed imprevenibile, ma non può essere la norma. Citando Bertolt Brecht “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”.

La risposta deve essere “sistemica”, ovvero più correttamente “di sistema”, deve essere caratterizzata dal coagire delle competenze prospettico-organizzative proprie dell’Igiene con quelle di tutela dei lavoratori e dei pazienti, senza dimenticare le capacità laboratoristiche, cliniche, tecniche e di approfondimento di ciascuna delle branche. Molto ci è mancata, a solo titolo di esempio, la possibilità di esperire sistematicamente i riscontri autoptici.

Non si tratta quindi di rafforzare questa piuttosto che quella funzione, ma di creare la dovuta sinergia in un modello integrato che garantisca in ogni dove, non solo nell’emergenza, una visione “olistica” e di prospettiva. Se poi tanto debba realizzarsi attraverso le forme dipartimentali, di strutture più o meno complesse e/o di funzioni, è questione che veramente può appassionare poco. Ma, per favore, dimentichiamoci il “a me spetta”: le cose devono essere fatte da chi le sa fare.

Alcuni esempi, spesso solo embrionari sono già presenti, si tratta di pensare in modo nuovo, svincolato da turris eburnee autoreferenziali o – peggio ancora – da logiche di potere, anche accademico, che ad oggi sono imperanti.

È però ovvio – e giungendo al secondo (e forse più importante) punto delle proposizioni – che tanto potrà realizzarsi solo attraverso un differente approccio di tipo formativo. Non si vuole qui discutere in ordine alla formazione universitaria, né se si vuole su quella specialistica post-universitaria: tanto, pur necessario, richiederebbe forme diverse di approfondimento.

Il tema è invece quello, duplice, da un lato della formazione manageriale in sanità e dall’altro quello, ancor più cogente, della istruzione applicativa del personale operante nelle strutture sanitarie.

Il modello imperante per la prima è quello “classico” ottocentesco della lezione ex cathedra dell’esperto di turno: esso si basa sulla trasmissione di nozioni spesso teoriche, non infrequentemente svincolate dal contesto di riferimento. La riuscita della singola lezione è rimessa alle capacità dialettico-oratorie dello speaker di turno, il più spesso realizzatasi in assenza di una verifica concreta dei bisogni formativi specifici.

Per la seconda il modello prevalente è l’assenza: con ciò intendendosi che semplicemente non si fa. Ci si basa sulle competenze (universitarie, post-universitarie) acquisite e tanto – ipso facto – è sinonimo di capacità. Il che non è. Qualsivoglia microsistema sanitario è – per definizione – complesso. L’introduzione di nuovi elementi/attori in esso non è un processo automatico, ma deve essere “accompagnato”, reso possibile dal sistema stesso e tanto non può tradursi nella consegna/conoscenza di un manuale di procedure, quand’anche tanto si realizzi. È un processo cognitivo non semplice e non automatico, caratterizzato da variabili oggettive e soggettive che non possono essere rimesse alla capacità adattativa: a pena – ovviamente – di processi di apprendimento più lunghi e spesso riferiti come insoddisfacenti.

Per entrambe le prospettive però la risposta può essere simile: lavoro nel campo, intelligenza artificiale, realtà aumentata, simulazione, acquisizioni esperienziali diverse, condivise scelte delle best practices in riferimento alle fattispecie.

Questa non è un’opinione, è un obbligo, se non normativo quanto meno morale.

Se effettivamente vogliamo pensare ad un nuovo “ordine”, se al centro del sistema deve esservi la persona relazionale, i presupposti dovranno cambiare. Quella indicata è una strada possibile, ancorché vi può essere certezza che ve ne siano anche altre, non necessariamente alternative.


[1] Borgonovi E., Un microorganismo costringe a ripensare al rapporto ordine disordine. Mecosan 2019, 111:3-6.

[2] Nuti S., Introduzione alla Tavola Rotonda “Alta specializzazione, presenza territoriale, inclusività: le sfide di una Sanità per tutti. https://youtu.be/kJPKs40_dEw.

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