L’Osservatorio Riparte l’Italia ha intervistato in esclusiva Vincenzo Colla, Assessore allo sviluppo economico e green economy, lavoro, formazione della Regione Emilia Romagna. Affrontati temi legati alla ripartenza, alla digitalizzazione, alla crisi occupazionale e alla green economy.
Prima che l’emergenza sanitaria riprendesse il sopravvento, l’Italia aveva iniziato a porre le basi per avviare una ripresa economica e sociale, anche grazie agli aiuti che arriveranno dall’Europa. Quali sono secondo lei i principali settori su cui è necessario investire questi fondi per far ripartire l’Italia?
Sicuramente dobbiamo investire nella digitalizzazione, che vede il nostro Paese ancora molto arretrato. E non parlo solo della copertura dell’infrastruttura per il trasferimento dati su tutto il territorio, comprese le aree periferiche, ma anche di ICT, Intelligenza Artificiale, sensori, robotica, Big Data, 5G, Industria 4.0. Anche per questo dobbiamo fare un grade new deal dei saperi, investendo quindi in formazione sia per i giovani che per riqualificare i lavoratori più deboli, ma anche le PMI.
La strada tracciata dall’Europa, e che come Regione Emilia-Romagna abbiamo indicato nella strategia del nuovo Patto per il Lavoro e per il Clima, firmato da tutte le associazioni imprenditoriali, organizzazioni sindacali, enti locali e università del territorio, è quella della sostenibilità sociale e ambiente, pertanto i fondi vanno destinati a investimenti green, dalla produzione di energia pulita all’economia circolare, dalla riduzione delle emissioni e rifiuti inquinanti al riuso.
Insomma: un cambiamento culturale che deve portare a un rilancio dell’economia insieme ad una nuova e buona occupazione e a un benessere diffuso. Questa è la sfida che si evidenzia già nel titolo del Patto per il Lavoro e per il Clima
Il piano di ristori e sovvenzioni stanziati dallo stato verso i lavoratori sembra aver retto almeno in parte l’onda d’urto della pandemia. Ci si aspetta comunque un 2021 dove emergerà in maniera significativa il tema della crisi occupazionale. Cosa è opportuno fare oggi per ridurre al minimo le conseguenze occupazionali dell’epidemia?
Blocco dei licenziamenti e ammortizzatori sociali sono fondamentali nel corso dell’emergenza, che purtroppo non ci siamo ancora lasciati alle spalle. Tuttavia un Paese non può vivere di sussidi e con i ristori non si progetta il futuro. Non dimentichiamo che oggi c’è una novità: adesso abbiamo i vaccini che ci permettono un’operazione-ponte verso la ripresa. Quello che dobbiamo fare ora è gestire bene questa transizione e lavorare subito sugli investimenti strategici per rilanciare l’economia seguendo le direttrici che ho indicato prima, perché l’ambiente regge solo se si crea il lavoro.
Abbiamo visto che ciò è possibile, perché dove sono stati fatti investimenti sostenibili, si è creata anche buona occupazione. E dovremo dedicare grande attenzione alla formazione e riqualificazione, per non divaricare la forbice fra un gruppo ristretto di “ottimati” e una bolla di lavoro povero con basse competenze e bassi salari. Dobbiamo ridurre le disuguaglianze: è un fatto di giustizia sociale, prima che di economia.
L’Emilia-Romagna è una delle regioni più importanti sotto il profilo industriale. Qual è la situazione attuale dell’industria nella regione e cosa è opportuno prevedere per continuare a sostenerne lo sviluppo economico e produttivo?
I dati di Unioncamere comunicati a fine anno ci dicono che la pandemia causerà una contrazione del Pil regionale di poco superiore al 9%. I numeri dell’industria, disponibili sui primi 3 trimestri 2020, parlano di -12,2 % della produzione, -11,9 % del fatturato e -10,5 % di ordinativi. Solo l’export ha tenuto, fermando la caduta del fatturato a -7,6 % e degli ordini a -6 %. Quasi metà delle imprese ha problemi di liquidità. In questi mesi come Regione abbiamo incentivato le fiere digitali e l’e-commerce, abbiamo sostenuto l’internazionalizzazione delle imprese e continuato a investire sulla formazione.
Proseguiremo anche nei prossimi mesi su questa strada puntando su innovazione, digitalizzazione e ambiente, mettendo a frutto i fondi europei del Quadro Finanziario Pluriennale per il prossimo sessennio, che stiamo discutendo in questi giorni con le nostre strutture regionali a Bruxelles, e quelli del Next Generation EU, per i quali attendiamo i dettagli del Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Anche i settori dell’artigianato e dei servizi saranno chiamati a ripensarsi in vista della ripartenza. Quali le direttrici di fondo per creare opportunità concrete di sviluppo?
I dati regionali ci dicono che le imprese artigiane perderanno mediamente il 13% e per tornare ai livelli del 2019 dovremo attendere il 2022 o 2023. Stesse cifre anche per il settore dei servizi, in estrema difficoltà per questa pandemia. Anche per le piccole imprese artigiane la strada della ripresa passa da una maggiore qualificazione del lavoro e innovazione nella produzione.
In Emilia-Romagna, in particolare, vogliamo promuovere un modello di filiera dove le grandi imprese rappresentino una piattaforma di competenze e innovazione in grado di irradiare con tecnologia, saperi e servizi anche le piccole imprese. Una vera e propria rete che veda le grandi imprese trainare le piccole, non in qualità di subfornitori ma di partner del progetto e del processo produttivo. Un discorso specifico merita poi il terziario, che nel nostro Paese rappresenta i 2/3 dell’occupazione. Anche questo settore necessita di una maggiore integrazione tecnologica e digitale e di qualificazione professionale.
Un ruolo fondamentale nella ripartenza lo avrà la green economy. Su quali principi si dovrà basare la nuova sostenibilità industriale per garantire una ripartenza che ponga come paradigma fondamentale l’ambiente?
La sostenibilità industriale chiamata green economy è la sfida del nostro futuro. E bisogna progettare un nuovo modello di sviluppo che abbia in testa anche la sostenibilità sociale. Lo abbiamo inserito come principio identitario nel Patto per il lavoro e per il clima.
Il primo elemento per andare in quella direzione è progettare la sostenibilità industriale: mettere in campo una programmazione preventiva rispetto allo scenario industriale ed economico che ci vogliamo dare. Faccio un esempio: economia circolare non è solo l’acquisto di un bene “green” ma anche il controllo su come lo progetto, come lo produco, dove lo produco, chi lo produce e come lo fa. Una certificazione green della filiera. La filosofia della green economy è un’idea strategica a monte. A valle non si fa green economy né si dà una risposta sociale.
Un secondo elemento è l’importanza del riciclo e riuso: non ci possiamo permettere di consumare l’ambiente togliendolo al futuro. Gli ecobonus, ad esempio, a cui guardiamo con molto favore perché favoriscono la ripresa del mercato interno e sono fondamentali per creare lavoro, sono green economy. Recuperare gli immobili esistenti è un fatto ambientale, che diventa anche sociale e di bellezza. Per questo nel Patto prevediamo un grande investimento nella rigenerazione urbana.
Un terzo elemento sono le competenze: non si fa green senza il sapere. Pensiamo solo alla digitalizzazione: nessuno lo dice ma il digitale è particolarmente energivoro. Quindi anche il governo del sistema delle reti ha bisogno di ricerca, luoghi idonei, comportamenti, conoscenze. Alla Dallara Spa ho visto un Server farm che sfrutta dei filtri per il raffreddamento e invia il calore generato ad un sistema di ventilazione per riscaldare gli uffici. È uno dei tanti esempi virtuosi di come le imprese possono sfruttare le conoscenze green non solo all’interno dei processi strettamente produttivi.
Che ruolo avranno le energie rinnovabili in questo quadro e quale la reale situazione dell’Emilia-Romagna sotto questo punto di vista? L’idrogeno è realmente un’alternativa valida?
L’investimento in rinnovabili è fondamentale. Come abbiamo scritto nel Patto per il lavoro e per il clima, l’Emilia-Romagna punta ad accelerare la transizione ecologica con l’obiettivo di raggiungere la decarbonizzazione prima del 2050 e passare al 100% di energie rinnovabili entro il 2035. Per fare questo sarà necessario anche agire con il Governo per promuovere un’innovazione normativa e una pianificazione nazionale che individui anche i siti dedicati.
Con riferimento all’idrogeno, io ne sono un grande sostenitore e sono convinto che la nuova spinta green dell’Europa potrà indirizzare in modo deciso la ricerca e la sperimentazione verso nuove economie nel settore energetico verde e una maggiore competitività dell’idrogeno. Per la sua posizione e la sua vocazione storica, puntiamo a fare di Ravenna una piattaforma di ricerca di portata europea sulle innovazioni energetiche di processo e la riconversione verde. Qui ad esempio si insedierà il progetto di ENI per il più grande centro di cattura e stoccaggio di CO2 finalizzato alla produzione di idrogeno blu.
Secondo alcuni economisti, la ripresa economica in questa fase richiederà necessariamente un sacrificio della sostenibilità, perché troppo onerosa. Questa contrapposizione secondo lei è risolvibile?
Nella sfortuna della pandemia, abbiamo la fortuna che l’Europa abbia scelto non solo la strada della solidarietà ma una politica keynesiana. Gli oltre 200 miliardi che sono stati messi a disposizione dell’Italia serviranno proprio per imboccare in modo deciso la strada della sostenibilità ambientale, oltre che sociale. Se non lo facciamo adesso, perderemo la più grande occasione per il cambiamento di questo Paese. Non dimentichiamo che i soldi dell’Europa sono vincolati proprio agli investimenti green e non potranno essere spesi per altri settori. Non vedo dunque una contrapposizione fra sviluppo e ambiente, anzi: sono certo che si tratti di una vera rivoluzione che avrà un ritorno economico e sociale di grande rilevanza.
Un’ultima domanda sul rapporto tra il mondo della scuola e quello delle imprese. E’ stato dimostrato che la chiusura delle scuole comporta un ingente danno economico in termini di perdite di capitale umano. Si avverte quindi in modo forte la necessità di ripensare il rapporto tra il mondo della scuola e quello del lavoro. Dal punto di vista delle imprese, su quali leve è necessario agire?
Una delle conseguenze più gravi della pandemia è proprio la chiusura delle scuole, che sta causando danni gravi sia per l’apprendimento, a causa delle problematiche legate alla didattica a distanza, sia per la cesura delle relazioni sociali. Le stesse problematiche si stanno riversando anche sul mondo della formazione professionale, dove le ore di laboratorio in presenza sono fondamentali per l’apprendimento delle competenze. Il rapporto fra imprese e scuola merita alcune considerazioni importanti, a partire dalla consapevolezza che l’innovazione corre ad una velocità a cui anche il corpo insegnante fa fatica ad adeguarsi. Quella stessa velocità crea anche l’esigenza di figure nuove.
Per questo è necessario, come stiamo facendo in Emilia-Romagna, mettere in rete Istituti tecnici, Iefp, ITS, Università, scuole di specializzazione, academy aziendali e imprese per preparare al meglio i giovani e avvicinare domanda e offerta di lavoro, aprendo la strada ad una piena e buona occupazione. Vogliamo costruire delle passerelle fra le diverse offerte professionalizzanti e seguire i giovani in un percorso che si accordi alle loro abilità e inclinazioni, senza perdere nessuno per strada ma individuando insieme le modalità più adatte per l’apprendimento della professione. Va rilanciato un nuovo apprendistato quale forma di transizione per un lavoro stabile e dignitoso.
In particolare l’Emilia-Romagna investirà molto sulla formazione tecnico scientifica, anche con un coinvolgimento fondamentale delle imprese, perché è lì si aprono opportunità di lavoro immediato e stabile per ragazzi e ragazzi, oltre che di crescita e sviluppo per il nostro sistema economico.