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Urge una svolta nell’informatica sanitaria

L’intersezione fra sanità e informatica è un’area delicata su cui è importante ragionare, per diversi motivi. L’ultimo motivo, in ordine di tempo, è che per combattere il covid-19 ci sarebbe servita una sanità territoriale capace di lavorare in rete a livelli avanzati. Invece mentre gli ospedali hanno tutti più o meno retto l’urto, è palese che la parte sul territorio stia facendo una gran fatica. Ma non sono cose che si improvvisano.

L’informatica nel nostro Paese ha un andamento a macchia di leopardo, con isole di qualità e perfino di eccellenza accanto a buchi neri – o magari solo grigi – dove continuano a riproporsi  antichi difetti. I cervelli li avremmo anche, ma se fra i decisori mancano competenze specifiche e visione, è inevitabile che non vengano usati nel modo migliore e che si continui a farsi dettare l’agenda – se va bene – dalle multinazionali, per cui l’Italia è inevitabilmente una delle tante lontane province dell’Impero. Abbiamo vissuto storie che avrebbero dovuto insegnarci qualcosa, come quella della carta di identità elettronica: a 23 anni dalla legge che avviò il progetto le applicazioni sono ancora di là da venire, e i cittadini si chiedono perché pagare 22 euro per una tessera che poi usano come la vecchia versione cartacea, che costava meno e che veniva rilasciata immediatamente.

Viceversa, in sanità siamo per molti versi all’avanguardia. Anzitutto per la scelta universalistica –  in Italia le cure sono un diritto garantito ai cittadini – e poi per l’indiscussa qualità che, almeno in alcune regioni, caratterizza il settore sanitario. Ma l’avanguardia, al di là di alcune esperienze pilota, non pare riguardare l’informatica sanitaria. Le aziende pubbliche sono guidate da manager, di solito di derivazione sanitaria o amministrativa, che tipicamente cercano di governare la complessità ricorrendo ad un approccio verticale che lascia poco spazio all’interdisciplinarietà e al funzionamento in rete, e che spesso vivono l’informatica come una funzione tecnica: i computer devono funzionare, come il riscaldamento e l’impianto elettrico.

Se manca la visione nel management aziendale, e se manca nei loro riferimenti politici, le scelte vengono delegate ai livelli inferiori e si corrono vari rischi, facilmente riscontrabili nella realtà: una grande frammentazione nelle scelte del software, con rischi di duplicazioni e di un forte predominio di soluzioni verticali poco inclini a dialogare fra loro, un rapporto subalterno col mercato che ovviamente tende a influenzare le decisioni (e i responsabili dei sistemi informativi) più di quanto dovrebbe; e se teniamo conto che le multinazionali sono radicate in contesti anglosassoni dove il sistema sanitario è molto meno strutturato del nostro, nemmeno la sudditanza rappresenta una possibile soluzione dei problemi.

Riconosco che anni di battaglie su questo fronte un po’ mi pesano: quando oltre dieci anni riuscii, da assessore comunale alla sanità della città di Bologna, a convincere le aziende sanitarie del territorio metropolitano a condividere un unico portale informativo rivolto ai cittadini, non immaginavo che avrei dovuto continuare a combattere per anni – da consigliere regionale – per chiedere che fosse realizzato, manco fosse la tela di Penelope. Tanti progetti di integrazione stanno andando avanti, ma quando di mezzo ci sono informatica e organizzazione del lavoro, le resistenze al cambiamento sono fortissime: altro che resilienza di fronte al virus. Così ci tocca ancora rincorrere i responsabili della privacy che sostanziano il proprio ruolo riuscendo ad impedire che un medico dell’ospedale S. Orsola possa accedere ad un esame che il cittadino ha fatto all’ospedale Maggiore, invece di affrontare i nodi di una sanità territoriale che dovrebbe essere strutturata a rete anzitutto dal punto di vista informatico e informativo, per riuscire a fare fronte alle esigenze dei tempi normali. E figuriamoci poi ai bisogni di questi tempi di pandemia, al tracciamento dei contagi, all’igiene pubblica chiamata a un compito fondamentale per cui sinceramente mi pare ben poco attrezzata.

L’esperienza mi ha convinto che serva un cambiamento drastico nell’informatica sanitaria. Serve una visione, servono obiettivi chiari. Troppo spesso si leggono raccomandazioni generiche, frasi come “utilizzando al meglio le tecnologie disponibili”. Invece deve essere chiaro che non c’è una sola strada possibile, il problema è discernere quale e non banalmente “mantenersi aggiornati”. Affermare che il problema sia quello di mantenersi aggiornati implica che il percorso possibile sia unico, ovvero in altre parole significa che si è al traino: l’avanguardia esplora e traccia strade, l’intendenza segue. La politica deve definirsi anche su questo. Ai direttori delle aziende sanitarie vanno dati obiettivi chiari e misurabili, e su di essi vanno valutati. I dirigenti dei sistemi informativi non possono percepirsi solo come un ufficio acquisti che gira le richieste ai fornitori (abituali, di norma) e poi passa la soluzione preconfezionata ai richiedenti. Occorre la capacità anche di tracciare strade nuove, di sviluppare software innovativo, non necessariamente sempre e solo acquistandolo. A parità di risorse, a volte occorre acquistare licenze; altre volte commissionare un prodotto; altre volte – e a mio avviso bisognerebbe farlo più spesso di quanto non lo si faccia – investire le risorse in intelligenze, in persone, aprirsi a collaborazioni. E, se ci sono le condizioni, anche percorrendo le strade del software libero e della ricerca di una comunità più ampia su cui basare lo sviluppo. Ci sono diversi validi motivi per promuovere questo cambiamento: ne cito tre.

Il primo e fondamentale motivo è che le applicazioni di cui abbiamo un urgente e forte bisogno, sul mercato ancora non ci sono. Noi abbiamo bisogno di sviluppare un sistema informativo centrato sul cittadino, ben oltre il fascicolo sanitario elettronico, su cui strutturare la sanità territoriale e la medicina di iniziativa. E anche nel campo socio-assistenziale, l’invecchiamento della popolazione rende impraticabile (oltre che per certi versi pericolosa, come il covid-19 ha dimostrato) la concentrazione degli anziani in residenze assistite: dobbiamo invece favorire e supportare fortemente la domiciliarità. Il mercato sta sviluppando sensoristica ed applicazioni di telemedicina e teleconsulto, scelta giusta da percorrere, ma a noi non basta una logica individuale e ci serve un piano applicabile su larga scala. E i numeri su cui dobbiamo ragionare richiedono che le soluzioni vadano sviluppate tenendo conto dall’inizio della scalabilità, anche dal punto di vista dei costi, e possiamo farlo percorrendo strade nuove che mettano in valore il sistema sanitario e socio-assistenziale di cui noi disponiamo e pochi altri al mondo.

Il secondo motivo è che in generale l’innovazione ha bisogno di intelligenze più che di licenze e di royalties da pagare. La frontiera da varcare è quella che ci porta all’uso di sistemi esperti, di analisi dei big data, di moduli di conoscenza da mettere a disposizione di una rete capillare. A Bologna sta per arrivare una concentrazione di sistemi di calcolo formidabile, ma ce ne faremo ben poco se non metteremo tante intelligenze al lavoro su di esse in modo largo e capace di favorire inventiva ed iniziativa. Serve che il pubblico si faccia garante dei (significativi) requisiti di sicurezza e di privacy, e un approccio largo ai problemi mi pare quello che potrebbe dare frutti più interessanti.

Il terzo motivo è che spostare l’attenzione sullo sviluppo, sulla capacità di definirlo ed attuarlo, con obiettivi espliciti ed approccio modulare, è una cartina di tornasole che ci consentirebbe di aprire porte e finestre, e francamente troverei utile favorire un po’ di ricambio dell’aria. Dobbiamo creare le condizioni per fare emergere le intelligenze che abbiamo già fra le nostre fila ma che sono nascoste o penalizzate nel contesto attuale, e per disinnescare il freno a mano tirato che ci deriva dalle rendite di posizione, dall’intrinseca cessione di sovranità, dalla resistenza stolida di chi cerca di affermare un ruolo o il possesso di un dato, con competenze a volte più auto-percepite che reali.

Se c’è una cosa che la pandemia ci ha insegnato, è che non basta dire che dobbiamo attrezzarci rimandando il momento di farlo ad un momento proiettato in un futuro indistinto, ma bisogna farlo davvero e alla svelta.

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