Tra l’incudine e il martello. Forse – osserva sul Corriere della Sera Angelo Panebianco – la posizione più difficile, meno invidiabile, in vista del referendum sulla separazione delle carriere dei magistrati, è quella della componente riformista, la minoranza, del Pd.
Se sceglie il “sì” a una riforma di impronta liberale come quella, riafferma la sua identità e la sua vocazione riformista ma se lo fa trasforma anche se stessa in un gruppo di “social traditori”, di sabotatori della “causa”.
La quale causa consiste nel tentativo di usare il referendum per dare una spallata al governo Meloni. Un bel dilemma.
Al di là del difficile scoglio del referendum sulla separazione delle carriere la posizione dei riformisti del Pd (come quella del partito di Renzi) è oggi assai precaria.
E lo resterà se e fin quando l’asse politico del Pd rimarrà così spostato a sinistra, fin quando l’alleanza a tutti i costi con i 5 Stelle continuerà ad essere la sua priorità.
Con effetti a tutto campo.
Dalla giustizia ai temi del lavoro, a quelli dell’immigrazione o della politica estera.
È dura sopravvivere, disporre di quelli che un tempo si definivano “spazi di agibilità politica”, se devi fare i conti con una maggioranza del partito che è distante anni luce dalle tue posizioni.
Anche perché non è più questo il tempo degli indipendenti di sinistra.
Che è esattamente quanto viene di fatto evocato quando si immagina che il Pd possa andare alle elezioni politiche usando una qualche “copertura a destra”, un cespuglio di volenterosi riformisti a caccia di voti centristi.
Non funziona più così. È la leadership del partito che deve (dovrebbe) avere la forza e la capacità di aggregare un fronte ampio in grado di erodere i consensi dello schieramento di destra.
Che è quanto Romano Prodi ha detto e ripetuto.








