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L’Italia paese per vecchi: i salari in picchiata e i giovani in fuga | Il rapporto Ocse

L’ultimo rapporto dell’Ocse sul lavoro ci restituisce l’immagine impietosa di un’Italia che si muove, sì, ma in salita.

Il mercato del lavoro corre, almeno sulla carta: disoccupazione in calo, occupazione ai massimi storici, inattività in discesa.

Ma sotto il cofano rombano problemi antichi, che continuano a rallentare ogni corsa verso il futuro: salari reali in picchiata, demografia in caduta, pensioni che pesano come zavorre e produttività ferma ai box da almeno vent’anni.

L’Ocse non usa giri di parole: tra tutte le principali economie avanzate, l’Italia ha registrato il calo più significativo dei salari reali.

Tradotto: gli stipendi, al netto dell’inflazione, valgono oggi il 7,5% in meno rispetto al 2021.

Un crollo che brucia il potere d’acquisto delle famiglie e smonta con brutalità le narrazioni ottimistiche di chi celebra l’aumento nominale degli stipendi legato al rinnovo dei contratti collettivi.

Troppo poco, troppo tardi.

Soprattutto se un lavoratore su tre, nel settore privato, è ancora coperto da un contratto scaduto.

La forbice rispetto al resto dell’area Ocse si allarga: mentre altrove i salari reali riprendono lentamente quota dopo la mazzata dell’inflazione post-Covid, in Italia la risalita è timida e incerta.

Per il biennio 2025-2026 si prevede un +2,6% e +2,2% nei salari nominali, appena sufficienti – forse – a tenere testa a un’inflazione al 2,2% quest’anno e all’1,8% l’anno prossimo.

Pareggio, nella migliore delle ipotesi.

Eppure, paradossalmente, l’Italia vanta numeri da record nel mercato del lavoro: disoccupazione al 6,5% (pur restando sopra la media Ocse del 4,9%) e crescita dell’occupazione dell’1,7% nell’ultimo anno.

Ma è una crescita che parla soprattutto la lingua degli over 55.

I giovani restano in panchina.

Il tasso di occupazione complessivo resta infatti sotto la soglia critica: 62,9% contro il 70,4% della media Ocse.

Il divario è ampio, strutturale e parla di un’Italia che ancora fatica a includere donne, giovani e Sud nel mondo del lavoro.

Il futuro? Non promette bene.

Il dato più allarmante del report arriva alla fine, come un colpo di coda: da qui al 2060, la popolazione in età lavorativa diminuirà del 34%.

Un tracollo che nessuna riforma potrà invertire, solo contenere.

L’indice di dipendenza degli anziani – cioè il numero di pensionati per ogni persona in età da lavoro – passerà da 0,41 a 0,76.

Un anziano ogni 1,3 lavoratori.

Numeri che fanno tremare i conti pubblici e spiegano perché la questione pensionistica sia tornata al centro del dibattito.

Non basterà – avverte l’Ocse – innalzare l’età pensionabile.

Serve occupabilità a lungo termine, formazione continua, flessibilità, possibilità di transizione graduale alla pensione.

E invece?

Oggi solo il 9,9% degli italiani tra i 50 e i 69 anni continua a lavorare dopo aver incassato la pensione, contro il 22,4% della media europea Ocse.

Sintomo di un mercato del lavoro rigido, e forse anche di un modello culturale che considera il lavoro in età avanzata più un fallimento che una risorsa.

Infine, il nodo più duro da sciogliere: la produttività.

Se resterà al ritmo asfittico degli ultimi decenni (+0,31% annuo), il Pil pro capite italiano è destinato a scendere dello 0,67% all’anno.

Non basta lavorare: bisogna lavorare meglio.

E per farlo servono investimenti mirati, infrastrutture efficienti, innovazione digitale e soprattutto, capitale umano motivato, preparato, retribuito.

Insomma, dietro le cifre rassicuranti di un’occupazione in crescita si nasconde un Paese che invecchia, che non riesce a valorizzare il suo lavoro e che rischia di impoverirsi anche lavorando.

Un Paese che fatica a premiare chi entra nel mondo produttivo e protegge, invece, chi lo ha già lasciato.

L’Italia non ha bisogno solo di più occupati.

Ha bisogno di un lavoro che torni a valere.

Economicamente, socialmente, culturalmente.

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