Il nuovo Patto di stabilità e crescita, ricorda Elsa Fornero sulla Stampa, obbliga l’Italia a seguire, nei prossimi anni, un percorso di stabile riduzione del debito pubblico. Si tratta di una sorta di vigorosa «camicia di forza» che abbiamo (giustamente) accettato di indossare, nonostante tutti gli stridii del passato. E che inevitabilmente ridimensiona drasticamente i margini di manovra non soltanto della legge di bilancio per il 2026 appena approdata in Parlamento ma anche le prossime.
Il prezzo che paghiamo alla sostenibilità del nostro debito è dunque un’ipoteca sulla crescita futura, ancora condannata allo «zero virgola» (e che sarebbe però una «decrescita», se non ci fossero i prestiti e i finanziamenti gratuiti del Pnrr). Così inquadrata, la manovra per il 2026 è davvero poca cosa.
Poca in quello che aggiunge all’economia: poco più di 18 miliardi di euro (meno dell’uno per cento del Pil, che ammonta a circa 2.200 miliardi); scarsa nell’incisività: la riduzione dell’aliquota Irpef dal 35 al 33%, nello scaglione tra i 28 e i 50 mila euro, sterilizzata per i redditi superiori a 200 mila euro annui, è sì importante ma non compensa la maggiorazione di imposte a carico dei lavoratori dipendenti dovuta all’inflazione, in particolare del 2022-’23.
Ed è poca cosa anche nella lungimiranza, nonostante io forse a causa dei 137 articoli che la compongono, che cercano di dare a tutti qualcosa. Una manovra inadeguata ad affrontare i problemi strutturali del Paese, a partire dalle conseguenze economiche dell’invecchiamento della popolazione.
Ci dobbiamo invece consolare, noi «europeisti austeri», perché abbiamo a cuore le generazioni, con la constatazione che il disavanzo sarà mantenuto al 3 per cento o anche un pochino sotto, permettendo al Paese di uscire dalla procedura di infrazione per debito eccessivo già nel corso del prossimo anno, il che potrà comportare un po’ di allentamento dei vincoli nei prossimi anni.








