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La politica tra esterofilia e originalità | L’analisi di Piero Ignazi

Prima Tony Blair, poi Emmanuel Macron, ora Zohran Mamdani. La politica italiana è sempre stata esterofila. Soprattutto dalle parti della sinistra, anche se a destra non mancano esempi, da Donald Trump a Charlie Kirk, sconosciuto personaggio divenuto una icona della destra in 24 ore (senza dimenticare la fascinazione salviniana per Vladimir Putin).

Evitare il provincialismo e tenere le antenne dritte per quello che succede in giro per il mondo è sinonimo di apertura, di disponibilità a imparare. Ma evitando di scimmiottare. Trappola in cui era caduto Matteo Renzi ai suoi tempi.

L’entusiasmo che si accende per alcuni personaggi stranieri mette in luce un certo “inferiority complex”: non siamo in grado di proporre qualcosa di valido, di autoctono.

Invece non è così. Nel bene, e soprattutto nel male, la politica italiana è stata la più innovativa del Novecento e oltre. Forse è superfluo ricordare il fascismo, un prodotto nazionale – con influsso ideologico francese – che realizza per primo un partito e un regime totalitario (Urss è un’altra storia).

Venendo a tempi recenti, Silvio Berlusconi ha introdotto in politica, in maniera diretta, il potere del denaro: Trump è un suo emulo. Beppe Grillo ha dimostrato che un comico avrebbe potuto guidare un paese se non si fosse stancato prima. E Volodimir Zelensky, brillante showman, ne ha seguito le orme, salvo essere costretto dalla storia a ben altro compito.

Lasciamo dunque Mamdani a mordere la Grande Mela, e Schlein e compagnia a cercare la quarta via… magari quella giusta.

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