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L’Europa senza la Russia, dal sogno all’incubo | L’analisi di Carlo Di Cicco

«Quelli di Macron sull’Europa finalmente adulta, appaiono vagiti forse per respirare un po’ nell’assedio popolare che dice no alla sua riforma pensionistica. Altri illustri europei negli ultimi cento anni hanno lasciato in eredità grandi pensieri per una magnifica Europa che rischia di schiantarsi nella bufera della guerra in Ucraina. Una valutazione seria su questa guerra sarà possibile solo a pace conclusa. Ora le passioni ideologiche hanno la meglio sulla ragionevolezza.

Il conflitto è diventato una trappola per l’Europa costretta a misurarsi con una contraddizione con sé stessa: rischia di smarrire la memoria storica e pregiudicare gli sviluppi futuri della pace con equilibri mondiali insostenibili.

Il grande ideale umanistico della cultura europea, ereditato anche dalle sue radici cristiane, da un secolo si andava affinando come continente unitario dall’Atlantico agli Urali, possibile da raggiungere a piccoli passi. Nell’armonia delle sue tante anime e tradizioni popolari. L’attuale conflitto – più subito che voluto dall’Europa e questo svela la sua persistente debolezza – procrastina a imprecisate calende greche la realizzazione del sogno multiculturale unitario. La guerra in corso così anomala è analoga alle pilatesche guerre disseminate nel globo dove grandi potenze combattono per interposto alleato: Europa e Nato mettono armi e sanzioni contro la Russia, l’Ucraina mette i soldati e i profughi.

Gli strateghi sono così riusciti a compattare il fronte pro-guerra con la malapianta ideologica per nascondere le ragioni vere di interessi e di potere nel riassetto della leadership mondiale. Si è tornati a pensare la lotta tra buoni e cattivi, scavando un nuovo fossato tra Europa e Russia che pareva in via di superamento con la fine dell’Unione Sovietica.

La guerra ha interrotto il lento, faticoso percorso storico di ricomprendere la Russia entro i confini dell’unica Europa democratica. Sono quasi sbiadite le figure di illustri pensatori, politici e perfino di papi convergenti verso l’obiettivo di un’Europa dei popoli finalmente pacificata, sottratta all’ingannevole prepotenza ideologica e orientata per un comune avvenire di giustizia e pace.

Davanti alla solitudine in cui, al di là del referente ossequio, viene lasciato papa Francesco che spinge instancabile per un concreto accordo di pace, è di qualche utilità riflettere quanto sia stata lunga, lenta, contrastata, eppure determinata, l’idea di un contenente unito, oltre la secolare divisione tra Europa orientale e occidentale.

Con improvvisa accelerazione si è passati nel febbraio 2022 da una possibilità di pace a un irreparabile incendio. Caratterizzato – come sempre in caso di guerra – dal rimpallo delle responsabilità sull’inizio della contesa e un ricorso sfacciato all’ipocrisia tipica della propaganda.

Pure in questa guerra la prima vittima è stata la verità. In modi e misura differenti tutte le parti coinvolte hanno perso l’innocenza.

In ogni guerra vincitori e vinti sono ostaggi dell’odio e della sete di rivalsa. E ciascuno nasconde orrori e crudeltà inimmaginabili. Tra un’offensiva e l’altra, una sanzione e l’altra, sarebbe utile indagare come e perché da grandi speranze di pace e progresso dopo la fine dell’Urss, l’Europa si è lasciata precipitare in una guerra distruttiva e pericolosa. La politica in prospettiva di unificazione europea è divenuta repentinamente afona. I governi sono tornati a fare ognuno per sé, salvo la guerra, e la capacità creativa di mediazione dei conflitti propria dell’Europa si è spenta di colpo.

Più che alimentare il conflitto sarebbe il caso di tornare a ragionare di pace. Con parole nuove e cuore nuovo, valorizzando ciò che unisce più di ciò che divide.

Fare pace senza contentarsi di parole muove dalla coscienza che farla la pace richiede disponibilità a cambiare, a ripartire per sentieri altri che non siano solo interessi e guadagni materiali.

Nessuno ignora che le tossine di odio e di interessi settoriali messe in circolo sono – e lo saranno per lungo tempo – un ragguardevole ostacolo alla pace.

Occorre riprendere a pensare diversamente da quanto si è fatto negli ultimi decenni. Ritrovare il filo tessuto per un’Europa unita. Progetto delineato prima dell’avvento del nazifascismo e mai del tutto morto, neppure durante il secondo conflitto mondiale. Ripreso con energia nel dopo guerra. Finora, tuttavia, si tratta di una tela di Penelope, tessuta da minoranze. Come accadde in Italia per l’idea di Risorgimento. Fatta l’Italia si lavora ancora a fare gli italiani con un pensiero coerente, conosciuto e condiviso, innervato nella Costituzione repubblicana.

Il primo a parlare di Europa dall’Atlantico agli Urali pare sia stato don Luigi Sturzo, fondatore del Partito Popolare. Il grande interesse di Sturzo per la federazione dell’Europa, frutto di intelligenza politica, nacque nel 1924, anno in cui, inviso al regime fascista e alla curia vaticana fu costretto all’esilio. Già, nel 1929, parlava di “un concreto e alto ideale, quello degli Stati Uniti di Europa”.

Consapevole di poter essere tacciato di visionario aggiungeva: “Gli Stati Uniti d’Europa non sono un’utopia, ma soltanto un ideale a lunga scadenza, con varie tappe e con molte difficoltà”. Previsione indovinata. Con il secondo conflitto mondiale la sua idea d’Europa era ben definita. “L’Europa – egli dichiarava testualmente nel 1944 – deve andare verso l’unificazione di tutti gli stati, compresi Gran Bretagna e Russia”.

La federazione europea, a suo parere, si sarebbe dovuta estendere dall’Atlantico agli Uràli e dal Mediterraneo al Baltico senza escludere l’Inghilterra. Il «totalitarismo della Russia» avrebbe, certamente, ritardato il necessario processo di unificazione ma era necessaria la pazienza per centrare l’obiettivo storico di un’Europa democratica unita. L’ideale sturziano dell’Europa ha faticato non solo per i ritardi della Russia. L’unità di mercati e l’unità di moneta ora esistono – si è osservato a più riprese da esperti in materia – ma con la grave anomalia, mai verificatasi nella storia, di essere acefale, ossia di essere prive di una direzione politica federale, di un governo federale. Si continua a restare lontani dal modello organico auspicato da Luigi Sturzo e, con lui, da Alcide De Gasperi, Robert Schuman, Jean Monnet, Konrad Adenauer, Paul-Henri Spaak, Altiero Spinelli e altri.

Con il concetto di Eurafrica per una possibile confederazione tra Comunità europea e Paesi africani affacciati sul Mediterraneo, Sturzo era andato al di là dei titubanti e maldestri tentativi della politica attuale così refrattaria a pensare in grande, spinta non solo da interessi ma da ideali umanistici. Un altro grande europeo, per altri versi rimasto segno di contraddizione, è stato Giovanni Paolo II, una delle voci slave più determinate a pensare e battersi per un’Europa dall’Atlantico agli Urali. I suoi interventi in proposito in ogni sede, opportune e importune, sono stati tali e tanti che sconcertano le critiche rivolte oggi a Francesco perché insiste nel dire che la pace non si può fare senza la Russia.

Jorge Mario Bergoglio in tema di Europa è in continuità con Wojtyla. Il papa venuto da lontano e il papa preso dalla fine del mondo sono convergenti nella convinzione che la pace possa assicurarsi solo entro una visione mondiale di fraternità. Se non passa questa linea culturale in Europa, qualsiasi esito del conflitto in Ucraina lascerà azzoppata la pace.

Il primo segnale che Wojtyla fosse un sostenitore di una Grande Europa lo si ebbe nell’ottobre del 1978 con l’ultimo saggio scritto da cardinale per la rivista “Vita e pensiero” prima di entrare in conclave che il 16 del mese lo avrebbe eletto papa.

Era un saggio intitolato in modo significativo: “Una frontiera per l’Europa: dove?”. Vi compariva l’espressione di Europa dall’Atlantico agli Urali con il rilancio della rilevanza dei popoli slavi e del loro cristianesimo quale elemento cardine culturale e politico integrativo di un’Europa allargata e respirante con due polmoni: occidentale e orientale. In qualche modo anticipava di 10 anni la condizione che con la fine dell’Urss sarebbe divenuta possibile. Mancò allora la percezione di un’occasione storica straordinaria da non perdere per l’Europa.

Il lungo pontificato di Giovanni Paolo II è stato costellato dal ritornello quasi ripetitivo dell’Europa allargata e unita. La prima occasione di lanciare questo sogno fu nel 1980 a Parigi nell’incontro con l’Unesco.

Il papa aprì il suo lungo discorso con chiarezza: “Non sarà certo esagerato affermare in particolare che, attraverso una moltitudine di fatti, l’Europa tutta intera – dall’Atlantico agli Urali – testimonia, nella storia di ogni nazione come in quella della comunità intera, il legame fra la cultura e il cristianesimo. Ricordando questo, non voglio in alcun modo diminuire l’eredità degli altri continenti, né la specificità e il valore di quella stessa eredità che deriva da altre fonti di ispirazione religiosa, umana ed etica.

Ben di più, a tutte le culture dell’insieme della famiglia umana, dalle più antiche a quelle che ci sono contemporanee, desidero rendere l’omaggio più profondo e sincero”.

L’ideale europeista del papa polacco (tanto diverso dalle politiche intransigenti attuali del suo Paese), generoso anche nei confronti della Russia nonostante i torti storici subiti dalla sua patria, fu ereditata da Benedetto XVI e ora da Francesco.

L’attuale papa ha collocato l’insegnamento sociale entro la grande cornice della fraternità che non si può ridurre a semplice utopia. Fratelli tutti è un’enciclica scomoda per la politica perché destruttura un modo di pensare sotto l’ombrello del sistema neoliberista che rischia di condizionare e stravolgere anche il significato della democrazia. Il richiamo congiunto di Russia e Ucraina per superare il conflitto rimane inscindibile in Francesco che viene animato fortemente dalla categoria di fratellanza. Si tratta in definitiva di completare il cerchio della trilogia della rivoluzione liberale finora intesa solo come libertà e uguaglianza. Con la fraternità si completa la trilogia.

Si esige però una cultura politica, sociale, economica e informatica conseguente. Da Francesco si apprende che non si può parlare di pace in forma appropriata solo mutuando il linguaggio usato per la guerra. In aggiunta Francesco coglie un’altra esigenza reclamata dai segni dei tempi: la cura della casa comune richiede la messa al bando di armi e guerre poiché danneggiano la sopravvivenza del Pianeta e dell’umanità strettamente interdipendenti. In una delle pagine del suo libro “L’Europa in guerra” Fabio Mini, generale di Corpo d’armata a riposo, già capo di Stato Maggiore del Comando Nato per il Sud Europa, strappa la maschera dell’ipocrisia che rischia come un piffero incantatore di assuefarci all’imbarbarimento del conflitto in corso in Ucraina.

“Al prossimo processo di Norimberga, – si legge in una pagina del volumetto – sul banco degli accusati per i crimini di guerra e contro la pace ci saranno senz’altro coloro che avranno perduto la guerra, ma non sarebbe male che una volta tanto ci fosse anche qualche rappresentante di chi l’ha vinta e l’intera schiera di chi non ha fatto nulla per impedirla”. Pensiero analogo anima la tela di pace che cerca di tessere la Santa Sede. L’ha riferita il cardinale Pietro Parolin segretario di Stato che ha concretato il pensiero di Francesco proponendo l’idea di una conferenza di pace per porre fine al conflitto».

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