La sindrome Meloni è a sinistra una malattia grave, scrive sul Foglio Giuliano Ferrara.
O almeno molto insidiosa.
Priva di intelligenza il campo largo, larghissimo, sterminato che non c’è.
Distrugge il raziocinio e insieme il sense of humour, oltre che il senso comune.
Si manifesta così: lei non si dichiara antifascista, non abiura platealmente, quindi è come Orbán, che ha costituito un gruppo in Europa in concorrenza con i suoi conservatori; quindi è come Le Pen, che sta con Putin e contro Zelensky, che non ha i deficienti denunciati da Fanpage, puro folclore, ma i bei tomi dell’Algerie française e dell’Oas; che è per la preferenza nazionale sovranista d’accatto francese, mentre Meloni risolve il problema della rete alla Kkr e di Ita alla Lufthansa; quindi è per Trump, col quale tutti dovranno eventualmente fare i conti, anche lei che è una cara amica di Joe Biden, et pour cause, perché sa stare in Europa e nella Nato con slancio atlantista serio e convinto anche dai tempi della sua opposizione solitaria a Draghi, con tutte le sue comprensibili riserve sul brillante provocatore Macron che cerca invano di umiliarla per i suoi affari interni.
Meloni non tocca i diritti civili, ma è designata nemica dell’aborto così, a vanvera, e peccato non lo sia affatto; ha una figlia che si chiama Ginevra, non Maria Goretti, è una ragazza madre o giù di lì, una single comunque che ha fatto i conti con il maschilismo del compagno a mezzo di un breve comunicato.
L’equanimità nel giudizio sugli avversari è uno dei tratti mancanti della piccola politica italiana.
Il reciproco riconoscimento di valori fu la base dell’esperienza repubblicana, finita con la dittatura del moralismo e del giustizialismo e con la caduta della cultura politica alta.
Recuperarne un’oncia, visto come stanno le cose, sarebbe doveroso, non indebolirebbe la prospettiva di un’alternativa, la renderebbe anzi credibile.