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La guida della UE e la strategia della Meloni | Lo scenario

Ursula von der Leyen è convinta di avere le carte in mano. Tanto che nel suo staff è già iniziata una raccolta informale dei desideri dei vari governi, e a ogni casella da futuro commissario europeo per ora corrispondono almeno tre o quattro Paesi. Una parte della fiducia della presidente della Commissione uscente, piccola o grande a seconda delle angolazioni, è riposta anche su Giorgia Meloni. Cinque anni fa, scrive il Corriere della Sera, la politica tedesca rischiò di essere impallinata nel voto segreto del Parlamento di Strasburgo, ce la fece solo per 9 voti e furono determinanti i Cinque stelle.

Oggi, pur essendo convinta di avere il bis alla sua portata, von der Leyen cerca garanzie granitiche contro i franchi tiratori (il voto è segreto) e una di queste è la pattuglia di europarlamentari che la Meloni le può offrire. Non è nemmeno un’opzione che tutto il gruppo dell’Ecr, i Conservatori europei che Meloni presiede, possa votare in modo compatto la von der Leyen. Non possono farlo i polacchi, che sono invisi come pochi nel Ppe, non può farlo il gruppo in modo strutturato perché c’è il rischio di un esodo dei Liberali dalla prossima maggioranza.

Ma il rischio dei franchi tiratori resta: basti pensare che la candidatura della von der Leyen come rappresentante del Ppe è stata approvata da poco più del 50% del suo stesso partito, almeno prima del voto dello scorso weekend. Ecco dunque che l’assicurazione di cui le due leader hanno già discusso diverse volte si concretizza in una quota dei seggi che la Meloni controlla: al massimo una trentina di eurodeputati, non solo italiani. Sufficienti però per rasserenare i sonni algebrici della von der Leyen. Che fino alla vigilia del voto aveva due sole persone da temere veramente: Macron e Scholz, entrambi depotenziati dalle rispettive delusioni elettorali.

E se tutti in questo momento stanno chiedendo un prezzo alla possibile o probabile futura numero uno della Ue, in cambio del consenso, la nostra presidente del Consiglio ha già chiesto e ragionato con von der Leyen su un paio di obiettivi. Il primo è di rango: Roma vuole un vicepresidente operativo, con deleghe pesanti. Ce n’erano quattro nella scorsa legislatura, nessuno era italiano.

Ma quali sono le deleghe nel mirino di Palazzo Chigi? Al momento sono almeno cinque: Industria, che però è quasi una scelta di serie B, visto che si tratta di un gigante amministrativo senza grandi poteri; la Difesa (se verrà creata) che invece potrebbe avere deleghe, industriali e geopolitiche, molto sensibili (la chiedono a gran voce i Paesi del fronte Est della Ue); la Concorrenza, che fa gola a tanti, ma per la quale ci vuole un know how non indifferente; il Commercio, portafoglio delicato e con tante scelte strategiche su materie prime e scambi con altri Stati e Continenti; e infine l’Energia.

Solo le prime due, però, sono abbastanza generiche per ipotizzare un disco verde a personalità che non abbiano competenze specifiche. Mentre le ultime due, e soprattutto l’ultima, sono integrabili con il piano Mattei caro alla Meloni. Al momento fra i nomi che circolano due sono più gettonati: l’ambasciatrice Elisabetta Belloni, capo del dis, il dipartimento che controlla i servizi, oltre che sherpa del G7, e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che forse sarebbe felice di lasciare ad altri la responsabilità del Mef. Altra indiscrezione da Bruxelles: anche la Roberta Metsola potrebbe fare il bis alla guida del Parlamento. Due su quattro dei cosiddetti top jobs della Ue sarebbero così appannaggio del Ppe.

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