Disagio. È, forse, la sensazione dominante che si può provare di fronte della sentenza del Tribunale vaticano che ha condannato in primo grado il cardinale Angelo Becciu e altri otto imputati per lo scandalo della compravendita del lussuoso palazzo di Avenue Sloan di Londra (https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2023/12/16/il-cardinale-becciu-condannato-a-5-anni-e-mezzo-di-reclusione_c476304e-4473-4898-b4c8-9c07987f5085.html)
E tuttavia non pacifica gli animi.
Resta lo spaesamento dell’anima non soltanto devota.
Tutto è cristallizzato a un primo stadio del problema: il momento dello scontento, degli schieramenti pro e contro, la divisione tra innocentisti e colpevolisti.
Un alveare di scontento in cerca di plausibilità.
Il nodo vero del processo sta nell’aver toccato un nervo scoperto della Chiesa cattolica su cui fare finalmente i conti in modo comunitario: la coscienza di sé stessa e il modo dei cattolici di appartenervi.
Già Paolo VI pose l’interrogativo al concilio Vaticano II: Quid est Ecclesia? Quod agit Ecclesia?
(Che cosa è la Chiesa? Che deve fare la Chiesa?).
La stampa dell’epoca riassumeva così le domande di Montini: Chiesa che dici di te stessa?
E Paolo VI rispose delineando una Chiesa che trova la spiegazione di sé in Cristo “nostro principio, Cristo nostra via e nostra guida! Cristo nostra speranza e nostro termine”.
E il concilio – come lo stesso papa Montini riconobbe alla fine dei lavori – rispose proponendo alla Chiesa di essere il samaritano dei tempi nuovi dell’umanità.
Papa Francesco ha ribadito la stessa direzione di marcia cercando di recuperare il tempo perduto con l’immagine di Chiesa “ospedale da campo”.
Quanto lontane queste domande da una condizione di difficoltà che debba ricorrere a un tribunale per ristabilire la giustizia in un contesto ecclesiale che dovrebbe respirare l’amore e il servizio.
Non è scontata la riuscita della grande visione di Chiesa testimonianza vivente di Cristo, ma è un dovere provarci.
E l’esito del processo lo rende urgente.
Iniziando da una riflessione sinodale sull’etica dell’essere cristiani capaci di fare i conti con le incoerenze rispetto al vangelo.
L’abuso di potere e di autorità riscontrato e finalmente denunciato apertamente anche dalle massime autorità ecclesiali, suggeriscono il coraggio dell’umiltà e della conversione.
Il male per la Chiesa non viene dalle denunce – talvolta irridenti o approssimative – dei media, ma dalla lentezza a comprendere che la salvezza non viene anzitutto dal rintuzzare le accuse, quanto piuttosto dalla coscienza della colpa, dalla capacità di aprire un dialogo con Dio basato sul pentimento, nello spirito del Salmo 50: contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi io l’ho fatto.
Tanto più che il Dio della Chiesa è il Dio di Gesù Cristo, padre misericordioso.
L’istituzione diventa un pericolo a sé stessa quando scivola nella tentazione di diventare centrale al posto di Dio.
L’orgoglio non è una risposta cristiana al peccato.
Nella storia questa strada c’è stata e ha portato alle crociate, all’inquisizione, alle scomuniche, al paradosso di voler affermare l’amore con la violenza.
Guerre decennali e limitazioni delle libertà.
La rinascita della Chiesa come forza di attrazione spirituale sta nell’umiltà.
Lo hanno ripetuto all’unisono i papi Benedetto e Francesco.
I due pontefici che si sono caricati del dolore e della vergogna causati dagli scandali della pedofilia e dagli scandali finanziari non solo del Vaticano ma di tante diocesi sparse nel mondo.
L’esito del maxiprocesso non può ridursi a un ping pong tra innocentisti e colpevolisti.
L’esito è che da vicende come questa se ne può uscire con una coscienza rinnovata anziché con il mettere la polvere degli scandali sotto il tappeto.
Nel disagio, pertanto, la sentenza impone una riflessione sull’etica dell’essere cristiani.
Brutta vicenda anche che lascia in ombra e ostacola il cammino innovativo che la teologia del concilio Vaticano II e ancor più il Vangelo reclamano.
Con un codicillo significativo e inquietante: alcune voci solitamente critiche nei confronti di papa Francesco sono giunte addirittura a considerarlo responsabile della sentenza ai loro occhi ingiusta e offensiva.
Questa è la fonte primaria del disagio: la tendenza a buttare tutto in chiacchiere più o meno salottiere quando gli eventi non collimano con la propria visione.
E nel “chiacchiericcio” di ecclesiastici e laici – per dirla con Francesco – nella Chiesa si rimane impigliati pur di resistere al cambiamento necessario e indifferibile.
Sì, perché la lettura della storia dovrebbe muoversi in forma unitaria e gli episodi leggerli in maniera contestuale.
Non vale più attardarsi sul mantenere forme desuete del passato quanto, piuttosto, uscire verso il futuro che va pensato insieme, in ascolto di quello che lo Spirito ha da dire alla Chiesa di oggi.
Solo così facendo ci sarebbe meno polemica e più passi in avanti nella conversione richiesta dal Vangelo.
La Chiesa è sollecitata a mettersi in stato di missione e in costante revisione di vita.
La Chiesa ha già fatto una revisione della sua storia a lungo compromessa con la mondanità, segnata da roghi e inquisizioni che hanno nuociuto al riconoscimento di tantissimo bene seminato nei secoli.
La Chiesa non può dimenticarla la storia incoerente vissuta per lunghe stagioni.
Ci sarebbe da rallegrarsi, pertanto, non per la condanna di un cardinale, ma per un principio di equità finalmente affermato nell’ambito del popolo di Dio dove la radice della dignità battesimale è uguale per tutti, laici e chierici.
E di conseguenza comune è la missione fondamentale di testimoniare e annunciare il vangelo ciascuno nel proprio carisma e servizio.
Evitando di confondere il servizio per licenza di potere o di negare la fragilità che sempre accompagna la comune condizione umana.
Il maxiprocesso, concluso con la sentenza clamorosa di primo grado, farà il suo corso in un eventuale appello da parte degli imputati giudicati colpevoli (https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2023/12/18/becciu-voglio-gridare-al-mondo-la-mia-innocenza_b4bac336-dbc1-426a-a5b4-28aa1c935e9d.html).
Senza dimenticare che in Vaticano non si erogano sentenze giudiziali in nome del popolo (che nel piccolo Stato non esiste) ma in nome del papa, sommo legislatore.
Quando l’intuizione di Giovanni XXIII avviò la partenza del rinnovamento e Paolo VI definì i contenuti del rinnovamento non si aveva presente la fatica che il rinnovarsi avrebbe comportato.
Ora è più chiaro che Chiesa rinnovata significa una sua maggiore somiglianza alla novità di vita contenuta nel vangelo e non un ripristino di consuetudini legate ai tempi passati.
Occorre rappresentare speranze e non tramandare precetti che non esprimono il comandamento dell’amore verso Dio e il prossimo.
Non va pertanto dimenticato il richiamo costante di Francesco al principio “misericordia” che meglio di ogni altro incarna il Dio cristiano.
La contestazione ricorrente nei riguardi del papa gesuita nasce dal suo voler adeguare la Chiesa a una comunità che si regga anzitutto sull’amore e la misericordia piuttosto che sul giudizio, le disparità, le discriminazioni, i divieti e il tornaconto privato.
La Dichiarazione sulla benedizione a tutti, anche alle coppie omosessuali, è il segno più recente di far prevalere nella Chiesa l’accoglienza rispetto al rifiuto e alle discriminazioni.
Essere cristiani non è un obbligo e neppure una eredità sociologica dei tempi di cristianità diffusa, ma una scelta di voler seguire Gesù di Nazaret.
Ciascuno ha la possibilità di restare cristiani per anagrafe e vivere come pagani.
Tutta la vicenda del processo vaticano sullo scandalo finanziario nuoce alla credibilità della Chiesa.
Le statistiche confermano i tanti abbandoni della Chiesa cattolica specialmente in Occidente.
Ma l’emorragia si cura non tornando all’antico, ma alla sequela di Gesù nel tempo presente.
Il maxiprocesso ha posto interrogativi agli imputati, ma il suo valore simbolico pone interrogativi personalizzati a chiunque voglia interessarsi di vita cristiana per sceglierla o rifiutarla.








