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La chirurgia oncologica al tempo del Covid. 63 interventi durante il lockdown per tutelare i malati. Ecco la nostra esperienza

La pandemia ci ha trovati impreparati? Forse.

Più che altro dovevamo combattere contro l’ignoto. L’Italia è stata la prima Nazione del mondo occidentale ad essere colpita e l’Emilia-Romagna la seconda regione italiana per numero di infetti. La priorità era la malattia da COVID-19, ma la paura di non riuscire a gestire le patologie oncologiche era diventata pressante, a maggior ragione se a chiudere i reparti e le sale operatorie per mancanza di risorse umane, in quanto destinate ai pazienti COVID, erano i centri di riferimento regionali.

La centralizzazione di patologie complesse e soprattutto dell’oncologia rappresenta una certificazione dell’adeguatezza delle cure: in tal modo questo tipo di patologie sono gestite al meglio, con i supporti delle tecnologie più innovative e con protocolli aggiornati.

E ancora, un centro di riferimento di Chirurgia Oncologica non lo è solo per le pazienti, ma rappresenta altresì una guida per gli altri ospedali che lo consultano per i casi complessi e per inviare i (nel nostro caso le) pazienti. Nell’epoca COVID i percorsi di cura separati fra pazienti COVID-positivi e COVID-free sono stati l’arma vincente per poter garantire loro l’accesso alle terapie che non potevano essere differite alla fine della pandemia, peraltro cronologicamente incerta. In questa lungimiranza della politica sanitaria si è inserita l’esperienza della Oncologia Ginecologica di Bologna, Hub regionale di III livello per le neoplasie ovariche.

La giovane struttura ospedaliera diretta dal Prof. Pierandrea De Iaco nasce nel 2011 e diventa Centro di Riferimento Regionale nel 2017; nello stesso anno è riconosciuta dall’European Society of Gynecological Oncology (ESGO) come centro accreditato per la chirurgia del tumore ovarico e di training per i futuri ginecologi oncologi. La struttura centralizza la cura dei tumori ginecologici, vi afferiscono pazienti della Regione Emilia-Romagna, ma anche da altre regioni del Paese, con una casistica operatoria di circa 450 interventi oncologici ogni anno.

Nella struttura sono eseguiti interventi ad alta complessità grazie all’expertise dei due chirurghi senior, Prof. De Iaco e Dott.ssa Anna Myriam Perrone, supportati da giovani leve e da un team multispecialistico altamente specializzato con figure dedicate alla cura dei tumori femminili. Attorno ai chirurghi ruotano figure professionali altamente specializzate come radioterapista, oncologo, patologo, medico nucleare, genetista, psiconcologo, per citarne alcuni, che contribuiscono a migliorare la diagnosi e la cura per ottenere risultati di eccellenza in termini di guarigione, di sopravvivenza e di qualità di vita.

Ma non c’è cura senza ricerca e il progresso nella cura dei tumori è garantito oltre che da un’eccellente attività clinica anche da un team che, attraverso la ricerca translazionale, svela gli arcani delle patologie neoplastiche ginecologiche. La struttura ospedaliera vanta collaborazioni che si estendono a ragnatela con altri centri di eccellenza italiani (gruppo MITO), europei ed extraeuropei, per essere sempre all’avanguardia nella cura dei tumori ginecologici.

L’argomento COVID in Chirurgia e Oncologia è stato fra i più spinosi all’inizio della pandemia.

In assenza di studi clinici di riferimento si è ipotizzato che, in caso di infezione da COVID-19 nel post-operatorio, le pazienti affette da tumore potessero avere un rischio maggiore di exitus. Pertanto, le linee guida delle Società scientifiche di settore hanno consigliato di inviare le pazienti operabili verso le terapie alternative, come la radioterapia e la chemioterapia, oppure di procrastinare l’intervento, fino ad emergenza COVID conclusa, nei casi di tumori iniziali poco aggressivi.

Nel primo caso la modifica dei protocolli di gestione della paziente neoplastica avrebbe potuto comportare una riduzione dell’ ”Overall Survival” (sopravvivenza); nel secondo, non potendo prevedere la fine dell’emergenza, la scelta avrebbe potuto essere rischiosa per un’eventuale progressione di una malattia con ottime potenzialità di guarigione.

La nostra scelta è stata, invece, quella di continuare ad eseguire gli interventi chirurgici per garantire lo stesso standard di cura dell’epoca pre-COVID e, per attuare tale programma abbiamo utilizzato misure preventive: tampone a tutte le pazienti 24 ore prima dell’intervento, percorso di cura separato dai/dalle pazienti COVID positivi/e, distanziamento sociale per le pazienti e per il personale, uso dei dispositivi di protezione per pazienti e staff e igiene delle mani, unitamente a tutte le altre cautele ordinariamente richieste. Oltre a tali precauzioni fondamentali, la soluzione del problema è stata però quella del dislocamento in Hub oncologici COVID-free: l’équipe chirurgica e le pazienti sono state accolte in strutture ospedaliere dedicate alla chirurgia oncologica con accesso limitato alle sole persone non affette dal Coronavirus.

L’organizzazione è stata complessa, ma ha mantenuto gli standard  qualitativi:  il patologo ha ricevuto presso la sede centrale i tessuti da analizzare tramite corrieri appositamente predisposti, il gruppo multidisciplinare di discussione dei casi si è riunito con la stessa frequenza dell’epoca pre-COVID utilizzando la rete informatica; la radioterapia e le chemioterapie sono state garantite nella struttura centrale; infine tutti i percorsi diagnostici correlati sono stati mantenuti come l’esecuzione dei test BRCA[1] e delle altre analisi genetiche.

La scelta è stata vincente poiché ha protetto pazienti e personale sanitario, come testimoniato dell’assenza di infezioni ed ha consentito il regolare svolgersi dell’attività clinica senza complicanze.

Durante il periodo di lockdown, l’Oncologia Ginecologica dell’AOU di Bologna ha eseguito 63 interventi chirurgici per patologie oncologiche: 23 (36%) per carcinoma dell’utero, 4 per carcinomi vulvari (7%), 23 per carcinomi ovarici (36%), uno per carcinoma della mammella associato a carcinoma uterino (2%). Il 63% delle pazienti operate risiedeva fuori Bologna e il 14% proveniva da “zone rosse”.

La valutazione dei dati ha mostrato che l’attività chirurgica della nostra équipe ha mantenuto gli standard di qualità richiesti dalle linee guida per il carcinoma ovarico, con una percentuale di pazienti operate in prima istanza del 67% e un residuo chirurgico assente nel 70% dei casi, ottenuto attraverso una chirurgia ad alta complessità. L’up-grade delle sale chirurgiche attraverso la strumentazione sofisticata proveniente dal Policlinico di Sant’Orsola ha infatti permesso di garantire non solo gli standard di qualità, ma anche l’implementazione di nuove tecniche come il linfonodo sentinella nei tumori dell’utero.

Quanto descritto ha permesso di trarre un’importante lezione, fra l’altro descritta e pubblicata su una rivista internazionale del settore, circa l’opportunità,  in caso di pandemia, di effettuare alcune operazioni: differenziare i percorsi, prevedendo degli Hubs “puliti”, in modo da poter continuare a svolgere le normali attività assistenziali ritenute urgenti; preservare il personale che si dedica all’oncologia non dedicandolo ai reparti infetti; preparare un adeguato approvvigionamento di reagenti per i tamponi ed equipments protettivi.


[1] Il test BRCA = BR  (breast = seno), C (cancer = cancro) A (assay = test) serve per valutare se le donne hanno ereditato un gene BRCA1 o BRCA2 che, mutato, determina un aumentato rischio di sviluppare un tumore alla mammella o all’ovaio.

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