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Il tempo del coraggio. La storia dei Ragazzi del ’99 e gli operatori sanitari di oggi. Il filo rosso che unisce due battaglie

Vi sono delle strade delle nostre città, a ricordarli.

E quando ci si imbatte, nel leggere la targa, a volte nasce curiosità.

“Chi sono questi Ragazzi del ’99?”

Personalmente, a prescindere dagli studi storici, ho avuto modo di conoscerli sin da tenera età. Quando i pomeriggi d’inverno, sul far dei 13 anni, sedevo sul divano del nonno avido dei racconti della sua vita.

Narrava che a 17 anni, in luogo di essere dedito ad un lavoro o agli studi, era con un grosso fucile che teneva con difficoltà a due mani, al fronte di una guerra.

Si trattava della Prima Guerra Mondiale e mi spiegava come – catapultato in prima linea di combattimento – faceva scorrere grosse cartucce in una grande mitragliatrice, affidata ad un militare esperto che sparava.

E mi mostrava la medaglia di bronzo ed il titolo di “Cavaliere di Vittorio Veneto”, che aveva conseguito per quelle gesta. Cavalierato che aveva affiancato, nel suo tinello, a quello “del Lavoro”.

Mi diceva che era stato vittima, durante il viaggio al fronte, anche dell’influenza spagnola, e che era stato adagiato su di un letto d’ospedale senza più speranze.

Ma che dopo una settimana il suo corpo aveva reagito e ne era uscito vivo.

Li chiamavano “la classe di ferro”, ma erano ragazzini. L’Italia ebbe bisogno di quei giovanetti in una fase difficile della guerra, dopo una disfatta bellica, che è entrata nel linguaggio comune quando si vuole indicare una situazione di totale disastro: Caporetto.

Ma andiamo a ritroso nel tempo e percorriamola brevemente.

La battaglia di Caporetto fu combattuta tra il Regio Esercito Italiano e l’esercito austro-ungarico e tedesco.

La sua data d’inizio fu la fredda notte a cavallo tra il 23 ed il 24 ottobre del 1917. Le truppe nemiche sfondarono, d’impeto e ben munite, le linee italiane, costringendo il nostro esercito ad una ritirata drammatica di 150 km. Fino al fiume Piave.

Il primo giorno le perdite ammontarono a 40.000 uomini tra morti e feriti. Seguentemente 60.000 vennero “fatti” prigionieri ed oltre un milione di civili, delle province di Treviso, Udine, Belluno, Vicenza e Venezia, spaventati dalla situazione, si riversarono nella Pianura Padana.

Chi rimase in loco, fu vittima di saccheggi e soprusi.

La nazione ebbe grande sussulto di sgomento.

Il generale Cadorna fu sostituito da Armando Diaz. Si tentò una riorganizzazione.

E venne tracciato dai vertici militari, un confine invalicabile: il Piave. Per questioni di irrobustimento dell’esercito, nei primi mesi del 1917, erano stati precettati 80.000 giovani, che non avevano ancor compiuto diciotto anni. Erano nati nel 1899.

Un secondo contingente di 180.000 individui di tal classe, vennero precettati nel maggio successivo. Ma solo dopo la disfatta di Caporetto, furono mandati al fronte, nel novembre dello stesso anno.

Essi rinfocolarono le linee del Piave, del Mondello e del Grappa, permettendo con tale presidio, la controffensiva dell’Esercito Regio.

Fino ad arrivare alla battaglia di Vittorio Veneto.

Ovvero un’aspra operazione bellica, combattuta dal 24 ottobre al 4 novembre del 1918, dove l’Italia riprese tutti gli onori delle armi, con una serie di scontri dove l’esercito nemico subì esiziali sconfitte. Tali da determinare una richiesta d’armistizio.

Le ultime battaglie si tennero il 3 novembre, perché il termine acchè terminassero, venne fissato alle 15 giorno successivo. La battaglia di Vittorio Veneto accelerò la resa della Germania.

I “Ragazzi del ’99”, sovvengono alla mente in questi giorni drammatici della nazione, dovuti alla seconda ondata del coronavirus. Il paragone con i giovani medici, infermieri e insegnanti, chiamati a dare una mano a chi è in prima linea, è d’uopo. Ma anche i medici in pensione sono assimilabili a questa “chiamata alle armi”.

Quando una nazione è in difficoltà, coagula intorno a sé chiunque abbia le competenze per dare una mano. Se pur parziale rispetto allo standard.

E nel leggere i resoconti dei giornali ho pensato a tale parallelismo.

Che fa onore a chi scende ora in campo a dare il proprio contributo, e a chi lo diede in guerra – in un’età votata ad altre ambizioni – e di cui rimane solo una targa.

Perché il mondo va avanti, le situazioni difficili si susseguono e non tutti gli eroi possono essere ricordati.

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