Fare una trasmissione tv significa dividere un pezzo importante di vita con diverse categorie di lavoratori: registi, producer, operatori, fonici, truccatori, autori, ovviamente di entrambi i sessi.
Tra questi, il più anziano ha diciassette anni meno di me; gli altri sono tutti più giovani. A tutti loro ho consigliato e consiglio di fare figli.
Nella nostra piccola comunità ne sono già nati due, Gabriele ed Edoardo, e altri sono in arrivo (naturalmente sarebbe accaduto comunque).
Ha ragione Ferrera: le prediche paternalistiche sono insopportabili.
Per alcuni talora possono rivelarsi utili.
Premessa: qui non stiamo parlando di politica.
Non ci sarebbe molto da dire.
Lo Stato non può fare prediche, imporre o anche solo caldeggiare stili e scelte di vita.
La maternità e la paternità non sono un dovere sociale, a differenza di quello che si è sostenuto per secoli: si possono lasciare tracce di sé ed essere felici anche senza diventare madri e padri, e ci mancherebbe.
Il compito dello Stato è rimuovere gli ostacoli e le discriminazioni, fornire aiuti e servizi, e mettere così tutti e ciascuno nelle condizioni di decidere liberamente se diventare genitore o no.
Qui però stiamo parlando della nostra sfera personale.
Personalmente, appunto, penso che la cosa di gran lunga più importante della mia vita sia stata diventare e fare il padre.
Ho due figli.
Mio fratello ne ha tre.
Se anche vendessi un miliardo di copie del prossimo libro (e temo non accadrà), mio fratello resterebbe una persona più ricca di me.
Nello stesso tempo, la paternità e la maternità non sono mai un fatto di numeri: ogni figlio è unico, irriproducibile, irripetibile, preziosissimo.
Poi il prodigio delle famiglie e delle comunità — un condominio, un paese, un quartiere, un luogo di lavoro, una parrocchia — è che i figli degli altri diventano persone care e arricchiscono le nostre vite.
Per questo il reato e il peccato che percepiamo come il più grave è fare del male a un bambino.
A coloro che fanno del male a un bambino, Gesù non dice: sarete perdonati.
Dice: fareste meglio a legarvi una macina da mulino al collo e a gettarvi in mare.
I figli sono le uniche persone che amiamo più di noi stessi; non a caso, i figli non possono capire l’amore dei genitori, fino a quando non lo diventano a loro volta.
Se penso alle volte in cui sono stato più felice nella mia vita, penso a quando ho visto i miei figli fare cose che io non so e non saprò mai fare.
Conosco l’obiezione: questo è egoismo.
È possibile.
L’egoismo non è il più nobile tra i sentimenti umani.
Ma è il motore della vita e della storia.
L’uomo non è un angelo.
È grazie all’egoismo se siamo vivi e non ci siamo estinti.
L’egoismo è riprovevole; ma è fecondo.
Le nostre nonne e i nostri nonni che hanno ricostruito l’Italia dalle macerie della guerra non erano mossi dalla solidarietà, dalla bontà, dall’altruismo (certo più diffusi allora di adesso); erano mossi dalla feroce volontà di non soffrire più la fame.
Per questo le nostre nonne avevano l’ossessione del cibo e cucinavano tutto il giorno: non volevano che i nipoti patissero quel che loro avevano patito.
Per questo i nostri genitori avevano l’ossessione dello studio e ci ripetevano di studiare: perché credevano nella cultura e nella tecnica come strumento di elevazione sociale.
Forse anche per questo oggi noi facciamo sempre meno figli: perché temiamo di mettere al mondo degli infelici, e temiamo diventando genitori di perdere quote di libertà, quindi di felicità.
Se l’egoismo è fecondo, il narcisismo è sterile per definizione.
Narciso si innamora della propria stessa immagine, non può possedersi, e quindi muore di inedia.
Lo specchio di Narciso oggi è il telefonino.
Passiamo la giornata a far sapere al mondo quello che pensiamo, vediamo, mangiamo; e siccome al mondo di noi non importa molto più di nulla, viviamo nella frustrazione di dover alzare la voce, a costo talora di calunniare e insultare.
Il narcisismo basta a se stesso.
I grandi narcisi che ho conosciuto erano persone — spesso affascinanti — che non volevano figli.
Questo non significa ovviamente che chi non desidera figli sia narciso.
E neppure che chi desidera figli sia migliore di chi non li vuole.
Ripeto: non stiamo parlando di demografia.
Ci sarebbe poco da discutere.
È evidente che non è sostenibile una società che fa un terzo dei figli che si facevano all’apice del boom economico, e la metà di quelli che si facevano in guerra, nel 1917, l’anno di Caporetto, e nel 1943, l’anno dell’8 settembre.
È evidente pure che non basterà far arrivare tutti gli immigrati di cui pure abbiamo bisogno, e che sono nella stragrande maggioranza mossi dal legittimo desiderio di un futuro migliore, per costruire una società attorno a quei valori di libertà, democrazia, giustizia sociale, rispetto delle donne per cui le nostre madri e i nostri padri si sono battuti.
L’unica soluzione, oltre ad accogliere e integrare gli immigrati, è aiutare in ogni modo, dagli sgravi fiscali ai servizi per l’infanzia, coloro che desiderano diventare genitori.
E magari bastassero assegni e asili nido.
Occorre anche ricostruire la fiducia nel nostro Paese, nell’avvenire, in noi stessi.
Però qui stiamo parlando di felicità personale.
E quindi stiamo lasciando il porto inquietante ma sicuro dell’analisi politica ed economica per entrare in quello indefinibile e mutevole dell’animo umano.
Per la mia generazione, cresciuta senza guerre, gli eroi sono i campioni dello sport.
Chiedete a Rafael Nadal di scegliere tra le sue 14 vittorie su 14 finali al Roland Garros, e il primogenito che si chiama come lui (il secondo è in arrivo); non avrà esitazioni.
Gustavo Thoeni non mi parlava dell’oro olimpico o della leggendaria rimonta ai Mondiali di Sankt-Moritz; mi parlava della sua massima felicità, fare sci alpinismo con le sue tre figlie.
Sandro Mazzola considera la sua più grande soddisfazione professionale non la Coppa dei Campioni vinta nel 1964 con l’Inter contro il Real Madrid, ma il fatto che Ferenc Puskás alla fine della partita gli abbia detto: «Ragazzo, io ho giocato contro tuo padre Valentino. Sei davvero degno di lui».
Lo ripeto: chi desidera figli non è migliore di chi non li desidera.
E fare figli può anche essere considerata una forma di egoismo.
Ma chi ha la fortuna di diventare genitore, e comunica agli altri la propria gioia, la propria felicità, il proprio entusiasmo, non è un egoista; compie il più grande gesto di altruismo possibile.








