Riflettere sul lavoro in Italia oggi vuol dire sia fare i conti con fenomeni nuovi come il calo del tasso di attività (Marroni, Il Sole 11/9) e l’invecchiamento della popolazione (Romano, Domani 6/9) sia ragionare su vecchie questioni come il divario Nord-Sud (Istat 12/9), la scarsa attenzione ai giovani (De Molli, Cernobbio 5/9), lo squilibrio di genere (di cui non parla nessuno). Questo non vuol dire non riconoscere il positivo andamento dei dati del nostro mercato, ma provare a uscire da una rappresentazione favolistica del lavoro e guardarci dentro.
Come già quelli mensili di settembre, anche i dati del II trimestre 2025 confermano un tasso di disoccupazione (15-74 anni) al 6,3 per cento, un tasso di inattività leggermente diminuito al 33 per cento, un tasso di occupazione lievemente aumentato al 62,6 per cento.
Partiamo dalla disoccupazione: un tasso al 6,3 per cento è basso, è vero, è in diminuzione da dieci anni (dunque non è merito di Meloni) e ci mette giusto in media con i 27 dell’UE. Ma quel tasso al Sud è ancora a due cifre (12,1 per cento), doppio rispetto alla media nazionale e triplo rispetto al Nord al 3,9 per cento. E poi, fuori dalle percentuali, di quante persone parliamo? Di un milione e mezzo di persone. Cioè tante quante ne avevamo nel 1959, l’anno in cui per la prima volta cominciammo a misurare le grandezze del mercato del lavoro. In un paese completamente diverso per cultura, economia, scolarizzazione e sviluppo, eravamo una popolazione giovane di poco più di 49 milioni di persone e avevamo un milione e mezzo di disoccupati (1,530).
Invecchiamento e disoccupati
Quasi 70 anni dopo, nel 2025, siamo una popolazione vecchia di poco più di 59 milioni di persone e abbiamo un milione e mezzo di disoccupati (1,532). In mezzo molte cose, certo, anche un picco di tre milioni di disoccupati, ma siamo ancora a quell’ammontare. Sono cambiati i rapporti percentuali, si sono ristretti i criteri per misurare la disoccupazione, stanno sparendo i giovani, ma sulla disoccupazione siamo alle solite, e se a questa aggiungiamo le persone che non cercano perché scoraggiate (751 mila persone) o per carichi familiari (3 milioni e 203 mila, praticamente tutte donne) raggiungeremmo valori, questi sì, record, ma chi ne parla?
Sembra che in Italia la disoccupazione sia sparita. Ci voleva l’intervento introduttivo del presidente De Molli al Forum di Cernobbio per ricordare del milione e 400 mila giovani NEET che ci portano a essere il secondo peggior paese per incidenza in UE, con un tasso del 15,2 per cento, superiore sia alla media europea (11 per cento) sia al target UE 2030 (9 per cento). Non siamo stati insomma in grado a oggi di scardinare le cause di quello che fu definito un vero e proprio modello di disoccupazione italiano, che escludeva sistematicamente giovani e donne, per lo più concentrati al Sud.
Come oggi. E così, nel paese in cui il lavoro aumenta e gli imprenditori non trovano disponibilità, ci sono un milione e mezzo di persone che cercano e non trovano lavoro e tre milioni e 900 mila che, se aiutate, lo vorrebbero. Non proprio dati da mercato del lavoro perfetto.
Tasso di attività
Dal 2004 al 2025 il tasso di attività della popolazione 15-64 anni è aumentato, sì, ma di soli 4 punti (dal 62,5 al 66,8 per cento), un aumento non particolarmente significativo che ci lascia ancora in coda (al terzultimo posto) in Europa, dove nel 2025 (per i 20-64 anni) siamo al 75,4 per cento. Inoltre, e qui oramai lo sanno tutti, la crescita del tasso è dovuta solo alla classe 50-64 anni, che è passata dal 44,1 per cento del 2004 al 69,2 per cento del 2025, nel frattempo il tasso di attività dei 15-34 anni cala dal 60,5 per cento al 50,6 per cento.
Paradossi
Della partecipazione delle donne parliamo un’altra volta (l’inattività delle donne nel Mezzogiorno è del 56 per cento: vuol dire che fatta 100 la popolazione femminile sudista fra 15 e 64 anni, 56 donne non lavorano e non lo cercano; se si guarda ai motivi, la stragrande maggioranza indica carichi familiari, sembra incredibile nel 2025).
Insomma, la partecipazione degli anziani (anche oltre i 64 anni) cresce — per volere o per forza — quella dei giovani diminuisce significativamente, quella femminile (al Sud) è bloccata dalle solite ragioni.
E veniamo all’occupazione: la crescita è innegabile, ma anche qui c’è altro. Partiamo da un dato troppo poco discusso. Oggi in Italia consideriamo occupato chiunque abbia svolto almeno un’ora di lavoro retribuita, con o senza contratto. Misuriamo cioè il lavoro regolare e irregolare senza distinzione (perché ormai ci interessa la quantità, non la qualità, e questo sarebbe tema da affrontare).
Dunque, in quel dato c’è anche il sommerso, che come è noto è un’altra antica piaga italiana, stabile al 13 per cento del Pil da anni e più alta che nel resto d’Europa. Ciò detto, certamente un tasso del 62,8 per cento di occupazione è un dato inedito, che cresce ovunque, ma, sempre per avere lo sguardo lungo della storia e guardare alle persone, nel 1959 avevamo 20 milioni di occupati, oggi ne abbiamo poco più di 24 milioni, mica tantissimi in più considerando che c’è anche il nero.
Ma, a parte questo, ciò che va ribadito è che:
a) in Europa il tasso di occupazione è attualmente al 70,4 per cento (76,1 per cento per la fascia 24-64), dunque cresciamo (poco) ma non siamo ancora in media;
b) la crescita occupazionale al Sud c’è, ma i divari geografici restano, e quelli di genere sono inaccettabili (il tasso di occupazione delle donne del Sud è del 37,8 per cento a fronte del 62,8 nazionale);
c) la crescita è disomogenea per età e dovuta agli over 55 in settori a basso valore aggiunto, il che spiega perché all’aumento di occupazione non si accompagni crescita della produttività e cresca la vulnerabilità lavorativa per la diffusione di lavori poveri e poco qualificati, tanto che la quota di povertà individuale tra gli occupati è passata dal 4,9 per cento nel 2014 al 5,3 per cento nel 2019, al 7,6 per cento nel 2023.
Un bilancio di questo attuale mercato del lavoro dunque ha un’altra faccia: siamo il paese dei paradossi. L’occupazione cresce, ma i divari non diminuiscono. I giovani fra i 15 e i 34 anni sono più disoccupati, meno occupati e meno attivi degli anziani, agli anziani abbiamo allungato la vita lavorativa senza considerarne le condizioni, le storie pregresse, i desideri e le possibilità.
Affrontare i problemi di un paese che invecchia lavorativamente vuol dire affrontare sfide sociali, economiche e culturali che coinvolgono il mondo del lavoro prima che i lavoratori diventino lavoratori anziani, vuol dire ragionare dello squilibrio fra generazioni mai così forte e guardare alle condizioni fisiche, mentali, economiche e sociali di chi continua a lavorare oltre i 65 anni, attrezzando un diverso welfare e nuovi ambienti e lavori.
E invece siamo al paradosso di avere allungato la vita lavorativa, aumentando la precarietà degli anziani, quelli che fino a poco tempo fa reggevano il peso economico di quella dei giovani. Non abbiamo saputo governare le vecchie questioni del mercato del lavoro, non mostriamo la capacità (né la volontà) di attrezzarci per le nuove.








