La storia non si ripete ma spesso fa rima con sé stessa, diceva Mark Twain.
E, finora, la rima con gli anni Trenta del secolo scorso ci era apparsa a tratti inquietante per come risuonava pedissequa: la brama imperiale di un dittatore, l’invasione di uno Stato confinante con un pretesto etnico, la balbettante risposta delle democrazie occidentali indebolite dall’assolutismo pacifista, quella singolare cecità che induce a non riconoscere un nemico nemmeno quando questi viene a bussare alla porta.
Era difficile, insomma, non rivedere in filigrana l’aggressione di Hitler ai Sudeti e l’appeasement anglofrancese di Monaco 1938 dietro la tragica pagina scritta da Putin in Ucraina due anni orsono e i conseguenti collassi «ciecopacifisti» di larga parte della nostra opinione pubblica.
Ma la storia, oltre a non ripetersi, sempre ci stupisce.
Sicché stavolta nella sua metrica s’è inserita una forte nota dissonante: un terzo attore che avevamo voluto dimenticare e che è entrato in scena la sera del 22 marzo al Crocus City Hall.
Per dirla in modo brutale: qualcuno che ci odia più di quanto possiamo mai riuscire a odiarci tra noi.
Che i jihadisti dello Stato Islamico ci mettessero tutti nello stesso mazzo era facile da capire sin dall’inizio del conflitto scatenato da Mosca contro Kiev.
«Una guerra benedetta», scriveva nel 2022 Voice of Khorasan, uno dei media del gruppo terrorista che, dopo l’annientamento del Califfato sunnita di Raqqa, ha trasferito la propria operatività tra l’Afghanistan e i territori adiacenti.
Ma finora Putin è apparso assai riluttante ad ammettere di essersi lasciato alle spalle vasti territori di odio islamista, fomentati dalle nefandezze russe in Cecenia, Siria e Afghanistan.
E sebbene sia irrealistico immaginare un ritorno all’afflato internazionale che scattò nel 2001, dopo l’attacco alle Torri, o nel 2015, dopo il Bataclan, spetta allo zar di Mosca l’ultima scelta.
Usare la strage del Crocus come la Sarajevo del 1914, accusando Kiev e l’Occidente e lanciandosi verso l’ultimo miglio prima della Terza guerra mondiale, o riconoscere che c’è da sempre un nemico comune più irriducibile in attesa nell’ombra: l’attore che non ci aspettavamo di rivedere in scena.